La corsa ai regali di Natale è ripartita e, con essa, torna puntuale sotto l’albero, rigorosamente impacchettato di rosa e azzurro, lo stereotipo di genere. In altre parole, si tratta del regalo natalizio che attribuisce a bambine e bambini, più o meno consciamente, dei ruoli prestabiliti e preconfezionati dalle aziende del giocattolo, che limitano la creatività e minano la libera espressione delle singole personalità individuali.
Bambole, principesse, aspirapolvere, cucine-giocattolo, ma anche trucchi e profumi per le bambine. Costruzioni, giochi creativi e interattivi, accanto a supereroi, armi e mezzi di trasporto per i bambini. Da una parte la cura altrui e della propria estetica. Dall’altra la stimolazione dell’ingegno, i superpoteri e la forza.
Giochi “per i maschi” e “giochi per le femmine”, come insiemi privi d’intersezione e complementari. Secondo quello stesso binarismo di genere che traspare anche dai cataloghi di giocattoli. Questi risultano divisi in precise sezioni, nelle quali anche gli animali sono capaci di discriminare: dinosauri per i bambini, peluche per le bambine.
Ci illustra queste dinamiche sottili e, spesso poco note agli acquirenti, Marie Moïse, ricercatrice in Filosofia politica presso l’Università di Padova e Tolosa, attivista femminista, specializzata in costruzione dei ruoli sociali e violenza di genere, giornalista per Jacobin Italia.
«Il gioco è un veicolo di crescita attraverso il quale i bambini spesso assorbono quello che viene definito “binarismo di genere”, cioè la percezione che esistano due generi contrapposti e complementari», spiega Marie Moïse. «Alle donne spetterebbe l’accudimento domestico e dei figli. Con il conseguente invito a sentirsi brave e a provare piacere nello svolgere queste attività, reputate invece stigmatizzanti per un maschio. Agli uomini verrebbe riservato lo spazio lavorativo, pubblico e politico. Un essere, aderendo a un’immagine, contrapposto a un fare».
Ma la costruzione di immagini e modelli inizia in realtà molto prima. Spiega l’attivista: «Gli stereotipi di genere vengono assorbiti dai bambini fin da prima della nascita, già da quando la famiglia vuole sapere se il nascituro sarà maschio o femmina, attribuendogli delle precise aspettative. Ci sono studi secondo cui già il primo sguardo nella stanza di ospedale è connotato, non neutro. Dei bambini maschi in culla si cerca la voglia di mordere la vita, la forza e l’energia. Delle femmine invece la gradevolezza dell’aspetto e la grazia».
Anche i colori, nei giochi di Natale come nella moda, non sono ancora privi di significati simbolici. Quella tra rosa e azzurro ad esempio è una distinzione ancora molto forte nell’infanzia. I fatti di cronaca ne sono testimoni. A cominciare dalla mamma di Chivasso che ha biasimato le maestre del figlio per averlo vestito con gli unici capi che avevano a disposizione, dopo che non era riuscito a trattenere la pipì. Questa la convinzione della madre: “meglio pisciato che vestito di rosa”.
Allontanandoci dall’Italia, una mamma ben diversa è Megan Fox. L’attrice ha assecondato le richieste dei suoi figli maschi di vestirsi da principessa, dovendo tuttavia difenderli dai paparazzi e da atti di bullismo scaturiti proprio dalla scelta dell’ambita maschera.
Riguardo alle discriminazioni anche negli spazi di socializzazione, nota Marie Moïse: «La scuola in Italia è oggi un terreno di battaglia, anche in seguito all’allarme gender. Dovrebbe invece essere, per i bambini, il luogo della scoperta del sé, che li renda futuri attori nella società del domani».
Per chi pensa che il rosa sia solo per le femmine, qualche nozione di storia: nel primo ‘900 era il blu il colore delle bambine. Tanto che la rivista Earnshaw’s, specializzata in abbigliamento per l’infanzia, scriveva: “La regola comunemente accettata è che il rosa sia per i bambini, il blu per le bambine. Questo perché il rosa è un colore più forte e deciso, più adatto a un maschio, mentre il blu, che è più delicato e grazioso, è più adatto alle femmine”.
Sul cliché della donna debole e insicura Moïse si esprime in questi termini, evidenziando lei stessa un vissuto personale di svalutazione sociale del femminile: «Fin da piccola sentivo che quello che dicevo non poteva avere la stessa importanza di quello che dicevano i miei coetanei maschi. Uno dei miei impegni oggi è anche quello di togliere lo stigma sul lavoro di cura, considerato di serie B, svalutato e sottopagato. Parlo di mestieri come la badante e fare le pulizie, lavori alla base della nostra società. Perché attribuirli solo alle donne, per poi dire loro che è un lavoro inferiore? Un ruolo trasformativo, creativo e di protagonismo è altrettanto importante, sin da bambine. Significherà poi anche capacità di difendersi da aggressioni, sicurezza di sé, non farsi scalfire dalle difficoltà».
Ecco che, anche se né colori né ruoli sono ancora neutri, almeno i genitori possono provare a costruire un “Natale gender neutral”, guardando al di là dello stesso modello familiare tradizionale. «La famiglia è tutta al centro dell’idea del Natale», ricorda Moïse, «Ma quella riunita attorno all’albero non è la famiglia classica. Spesso nuclei familiari non tradizionali, come quelli monogenitoriali, ricostruiti o multiculturali, subiscono una forte pressione sociale. Ma esistono, sono un dato di fatto, che ci piaccia o no».
Il Natale può essere un momento forte per i bambini, affinché creino spazi per lavorare sul potenziamento della loro capacità immaginativa. Questo l’invito della Moïse agli adulti che sceglieranno i doni: «Che Natale sia un’occasione per domandarci se davvero abbiamo bisogno di stereotipi. Ma soprattutto per mettere davanti il desiderio di vedere felici i propri figli. Affinché il gioco possa essere uno spazio per far crescere la stima di sé, avere cose da dire, essere artefici del proprio destino. Soprattutto per le bambine, che hanno meno occasione di esprimersi. Ma anche per i maschi, ipotetici futuri padri. L’unico rischio, mettendo una bambola in braccio a un bambino, è che diventi un buon padre».