ASCOLI – «Il giornalismo vero si fa con le scarpe». La famosa frase di Ettore Mo, grande inviato di guerra del Corriere della Sera, oggi 88enne, è stata indirettamente rievocata da Mons. Domenico Pompili – dal 29 ottobre Amministratore apostolico della Diocesi di Ascoli dopo le dimissioni di Mons. D’Ercole e Vescovo di Rieti -, durante l’incontro con i giornalisti per la celebrazione della Giornata internazionale delle comunicazioni sociali.
«Una volta la qualità di un giornalista si misurava dalla quantità di suole delle scarpe che aveva consumato..» ha detto Pompili. È chiaro che oggi, nel mondo del web, non è più cosi. Ma «occorre tornare a fare giornalismo e informazione vera, andando sui luoghi e raccontando gli avvenimenti, non elaborando o ricevendo solo quello che la rete trasmette. E questo – ha aggiunto il Vescovo – per fare un’operazione di verità».
La frase del Vangelo «Vieni e vedi», richiamata dal Prelato nell’ambito del messaggio di Papa Francesco in occasione della stessa Giornata di celebrazione, e «Comunicare e raccontare le persone come e dove sono», sono parole che esaltano dunque il giornalista come figura che ha ancora un ruolo decisivo nella società odierna, un ruolo di testimone del vero e non di manipolatore delle notizie o semplice distributore di informazioni filtrate e prodotte da altri per fini diversi.
E qui Mons. Pompili ha citato un detto diffuso soprattutto nel mondo anglosassone del giornalismo: «Chi fa informazione deve essere un cane da guardia della società».
Quanto questo obiettivo sia lontano dalla realtà presente, non è difficile da verificare. E ciò non solo perchè «i cambiamenti tecnologi nel lungo periodo diventando cambiamenti antropologici», ma soprattutto perchè – ha sottolineato il Prelato che ora guida la Diocesi ascolana – «la maggioranza dei principali media sono espressione di interessi economici e politici precisi, e non di editori puri che hanno come scopo prioritario quello di informare le persone su ciò che avviene».
Dunque non c’è speranza per il futuro? Sì, ma solo nella misura in cui il giornalista, che ha ancora e nonostante tutto un compito fondamentale, si fa «prossimo» – nel senso evangelico del termine – alle cose del mondo, alle persone, alla verità dei fatti.
Un discorso questo, che vale anche la narrativa sul covid, che secondo Mons. Pompili «è inquinata da contrapposte posizioni politiche e pseudoscientifiche che non aiutano a comprendere il fenomeno in corso» .
Dunque è necessario, per gli operatori dell’informazione, in qualsiasi ambito essi lavorino, cercare di tornare alle origini. Andando sui luoghi (ospedali compresi), parlando con la gente, cercando le notizie, verificando le fonti. E non aspettando che dall’alto arrivi una presunta verità rivelata, che spesso è lontana dalla realtà dei fatti.