ANCONA – Con il regista trentunenne Suranga Deshapriya Katugampala si apre alla Mole Vanvitelliana il Festival “Ka nuovo immaginario Migrante”, la rassegna di cinema, arte ed incontri dedicata quest’anno intorno al tema delle “Frontiere”. Un festival che intreccia punti di vista e sguardi diversi su storie ‘migranti’, come è nel percorso di vita e nella poetica di questo giovane autore arrivato in Italia in tenera età dallo Sri Lanka, e che ora vive da cittadino italiano a Verona continuando a lavorare in entrambi i suoi paesi.
Nel 2015, di ritorno da un lungo e importante viaggio come giornalista fotografico dall’Italia allo Sri Lanka via terra, ha iniziato a lavorare come regista anche grazie al sostegno del Premio Mutti – AMM che gli ha consentito di produrre il suo primo lungometraggio “Per un figlio” (Italia, 2016) considerato dalla critica una tappa fondamentale per il riconoscimento culturale e artistico degli italiani di seconda generazione. Di lui, il Festival Ka propone due opere di successo, l’opera prima “Per un figlio” (Italia, 2016), e il cortometraggio “The delivery” (La consegna), del 2017, premiato alla 74a Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Migrarti con il Premio Bisato d’Oro assegnato «per il coraggio di fare un cinema migrante, attento a un mondo che cambia e a un’intimità sempre in cammino, in cerca di sogni». In entrambi i casi si tratta di due produzioni nazionali, la prima di Gina Film e la seconda di Okta Film, realizzati con artisti e tecnici di grande esperienza e varia provenienza.
Suranga Deshapriya Katugampala, con la testa piena di mille nuovi progetti (insegna, tra l’altro, comunicazione digitale a Milano) si è messo in viaggio verso Ancona nella Giornata Mondiale del Rifugiato. Non è una coincidenza: fin dalla sua prima edizione (e qui siamo alla seconda), il Festival Ka inizia in questa giornata particolare, istituita dalle Nazioni Unite per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni di milioni di persone in fuga dai propri paesi. E il giovane regista italo-cingalese, che rifugiato non è, ha molto da dire sul tema, a cominciare dalle parole troppo spesso abusate.
«L’integrazione è una di quelle parole che non mi piacciono, ad esempio. Presuppone omologazione ad un modello, in questo caso c’è troppo spesso l’aspettativa che ogni migrante o straniero si conformi ad un modello prestabilito, mentre invece ciascuno porta con se’ una ricchezza di contenuti, di sguardi, di culture, che possono contribuire ad arricchire ogni comunità, di arrivo o di partenza. E’ un discorso che vale per tutti, migranti e non. Mi piacciono invece le parole ‘incontro’, ‘dialogo’, ‘scambio’. Su questo costruisco il mio cinema e la mia vita».
Di sé racconta: «Ho passato i primi 12 anni della mia vita in Sri Lanka e poi mi sono spostato in Italia, con la famiglia, mamma e un fratello. Mio padre è rimasto nel mio paese d’origine. Ci siamo spostati a Roma, a Viterbo e poi ci siamo trasferiti al nord. Ho studiato informatica multimediale, cercando opportunità e concretezza del lavoro, cosa che piaceva molto ai miei, anche se io sognavo di fare cinema . Ad un certo punto ho capito che volevo rischiare di più e quando ho finito gli studi mi sono dedicato alle mie passioni, studiando da autodidatta e poi approfondendo una dimensione creativa».
Una storia di integrazione, la tua?
«Assolutamente no, e lo dico in senso ‘politico’. Credo che il senso di questa parola oramai sia stato profondamente distorto, tutto il male che in questo momento si sta esprimendo, secondo me, è incentrato su questa parola. È l’idea che si porta dietro, un qualcosa di troppo piccolo, rigido, ed io non ci sto dentro questa parola. Penso che sia più sano pensare ad una dimensione di incontro, e ragionare insieme sul fatto che il mondo sta cambiando. Dobbiamo cercare di trovare nuovi modi di stare insieme e non pretendere che l’altro si adegui mentre io me ne sto tranquillo ad aspettare fermo nel mio pensiero e nella mia postazione».
Quel’è il tuo modo di essere italiano?
«Potrei dire molte cose che hanno a che vedere con il cibo, la cultura, i modi di pensare di questo Paese che ho fatto miei. Dell’amore che ho per le piccole cose che sono evidentemente di una cultura non sri-lankese. Al di là di questo, che è la parte più divertente, ho anche un sentimento di dolore, è questo che mi fa sentire italiano. Provo un sentimento politico per questo Paese, ho voglia di prendermene cura; ho voglia di dire che non ci sto, ho voglia di lavorare per cambiare ciò che trovo ingiusto».
Come sei arrivato al cinema?
«Nel tempo che ho passato in Sri-Lanka e in Italia sono cresciuto assimilando storie passate di mano in mano, di persona in persona; erano racconti di quello che succedeva al lavoro e nella vita quotidiana, sia in questo paese che nel mio luogo d’origine. Mi arrivavano tanti piccoli tesori. Storie, tante, di resistenza, della mia comunità ma non solo, storie a volte raccontate da mia madre, delle sue esperienze vissute in Europa e in Italia. Storie forti, difficili… nel cinema ho scoperto uno strumento per evocarle, dando la possibilità di trasformare i pensieri in emozioni da condividere con gli altri. Mi interessa raccontare come su tutto ciò che noi giudichiamo diverso è parte di noi. Lo racconto stando sulla mia base, quella della comunità sri-lankese, ma non solo».
Quali i tuoi riferimenti?
«Ci sono tanti maestri, europei, italiani ed asiatici. Ho sempre amato ad esempio Michelangelo Antonioni e la sua “trilogia dell’incomunicabilità” (ndr composta dai tre film in bianco e nero, L’avventura, La notte e L’eclisse); amo molto il cinema taiwanese di Tsai ming liang».
Nel film “Per un figlio”, storia di un rapporto difficile di una madre emigrata e di un figlio che nega la cultura d’origine, il tema dell’integrazione è un punto focale.
«Quel film nasce da questa urgenza. È una storia italiana e noi come creatori – è un film corale, mia la regia ma con un gruppo corposo di artisti – lo abbiamo realizzato spinti dall’urgenza di condividere. In questa opera l’integrazione passa da sentimenti di dolore, amore, inquietudine,. E’ una storia semplice, di una madre e di un figlio, ambientato in una provincia del Nord Italia, con uno sguardo complesso su cosa è questo paese».
Un film a basso costo, sostenuto grazie alla vittoria di un premio importante. «La produzione di questo film è stato molto anarchico, un percorso molto d’istinto che durante il suo percorso ha trovato delle alleanze tra cui il Premio Mutti e la Cineteca di Bologna, che hanno fatto sì che il film avesse inizio. Poi ci sono stati sostegni e prestiti di amici, alcuni hanno lavorato a titolo gratuito, e c’è stato un produttore che ha creduto nel progetto. Siamo andati avanti metro dopo metro, facendo infine insieme un lungo percorso».
Esistono, in Italia, pochissime forme di sostegno al nuovo cinema ‘migrante’. Perché?
«Ritengo che questo Paese non si voglia guardare allo specchio, non vuole sentire critiche. Il racconto del migrante che deve essere buono e bravo, ed il cui percorso di integrazione si esprime nella grande bontà di chi accoglie, è un tipico racconto che potrebbe essere sostenuti da numerosi fondi; purtroppo una lettura un po’ più critica di questi temi in questo momento non è sostenuta… Premio Mutti e Cineteca di Bologna stanno lavorando in una direzione molto più coraggiosa, ed è un bene perché sono convinto che all’interno di un atteggiamento critico ci sia la possibilità di crescere per tutti»
Nuovi progetti?
«Sto lavorando ad un’opera seconda – un lungometraggio. Un film per me molto ambizioso… sto cercando di provare a mio modo a fare un ragionamento sulla migrazione, che sia un poco più complesso ed intenso del discorso bannale e troppo semplice che se ne sta facendo nei giorni d’oggi»