OSIMO – Per il quarto anno la rassegna “La Notte dei Racconti” dell’istituto scolastico Laeng Meucci di Osimo-Castelfidardo ha aperto le porte ai propri studenti, a quelli degli istituti comprensivi di Osimo e alla comunità tutta. Ha incontrato più di cento studenti della scuola secondaria di primo grado Mazzini di Castelfidardo. In occasione del trentennale delle stragi di Capaci e di via D’Amelio e a quarant’anni dall’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, si è riaccesa la memoria collettiva di quegli eventi, non solo per onorare il sacrificio delle vite perse o rievocare quella terribile stagione di tritolo e lacrime ma per riviverli e attraversarli. Così è nato l’incontro con la storia, senza scorrere pagine o immagini di quei fatti universalmente condivise ma attraverso la voce di chi c’era. Il teatro La nuova fenice di Osimo ha “ascoltato” assorto.
«Ci ha scosso e fatto riflettere il racconto di Antonio Vassallo, fotografo di Capaci, presente in quel maledetto giorno sul luogo della strage. Le sue parole riecheggiano il boato dell’esplosione, rendono visibile il cumulo di macerie, le auto divelte, la nube di fumo e detriti che imperversa funesta sopra Capaci – raccontano oggi i ragazzi della scuola con i loro insegnanti -. Non è la solita storia che siamo abituati ad ascoltare o a leggere con distacco, con la percezione di un ricordo lontano e per molti giovani in platea addirittura sconosciuto. Ne siamo tutti immersi. Nel racconto si palesano dettagli inediti che solo chi ha vissuto può condividere, suscitando interrogativi senza risposta. Che fine ha fatto l’agenda gelosamente custodita dal giudice Giovanni Falcone? Come hanno fatto gli attentatori a posizionare quel rilevante quantitativo di esplosivo del tutto indisturbati? Antonio oggi oltre al suo lavoro, da cittadino attivo, condivide tutto questo con chiunque abbia il piacere di ascoltarlo. Non dà risposte a queste domande, perché non ci sono e forse non ci saranno mai, ma invita ciascuno a porsele aumentando la propria consapevolezza, il proprio spirito critico, il proprio senso di legalità».
A soli 57 giorni dalla strage di Capaci, in una fino ad allora anonima via di Palermo, qualche minuto prima delle 17, esplode una Fiat 126 imbottita di 90 chili di tritolo. Perdono la vita il giudice Paolo Borsellino insieme a 5 agenti della sua scorta. Le vittime di quella strage non sono finite, ce n’è un’altra, una “picciridda”, una ragazza, Rita Atria, la più giovane testimone di giustizia della storia, colei che chiamava Borsellino “zio Paolo”. Il 26 luglio 1992, a soli 7 giorni dalla strage, Rita Atria si suicida, lanciandosi dal sesto piano della sua abitazione a Roma. «Ci conducono in quella fitta trama di eventi le parole di sua cognata Piera Aiello, svelandoci in un’inedita prospettiva retroscena, personaggi, intrighi, violenze, raccapriccianti e sconosciuti. Piera non solo ha visto, ma ha convissuto con quel mondo oscuro. Piera ha vissuto più di una vita, prima come moglie del figlio di un boss mafioso, Nicolò Atria, fratello di Rita, poi come prima testimone di giustizia e infine come deputata delle Repubblica. Costretta a quel legame parentale, assuefatta alle violenze domestiche, alle minacce, dopo l’omicidio del marito, freddato dai killer davanti ai suoi occhi, nel 1991 Piera dice basta a quel mondo mafioso ed inizia a collaborare con la giustizia. La parola “mafia” che con pregiudizio ci riporta all’immagine di un’organizzazione criminale fatta di soli uomini, comprende anche le donne. La donna è fondamentale nelle alleanze di sangue, trasmette i valori criminali, mantenendo il processo educativo all’interno delle mura domestiche per evitare contaminazioni esterne. La “mafia” non va ricondotta al solo traffico di stupefacenti, al giro di denaro sporco, al traffico di armi, è desiderio di potere ed esercizio di potere. Raccontare, fare memoria è fare luce e liberarsi con spirito critico dei valori negativi imposti dal dominio mafioso, che tanto ama l’omertà».