Attore, comico, mimo, fantasista e clown, ma anche «provincialotto» e «papà». Così si definisce Piero Massimo Macchini, un artista marchigiano dai mille volti e sorrisi. Un comico naturale, uso all’arte della risata fin dalla più tenera età, ma anche un professionista metodico e prolificissimo. Spazia con disinvoltura dal teatro di strada al cinema, passando per il teatro comico alla tv e dal web alla radio, con una media annua (pre-pandemia) di 200 live e centinaia di video nei suoi canali social. Nel corso della sua carriera si è esibito in 5 continenti portando i suoi spettacoli di pantomima e ‘Visual Comedy’. Un volto, il suo, conosciutissimo nella sua regione, dove nel 2013 ha fondato Lagrù, una associazione culturale fucina di artisti e, e il progetto web, live e tv, Marche Tube. È anche formatore e personal coach per enti statali e privati, firma regie per il teatro e non solo. Non disdegna l’editoria, pubblicando con Giaconi Editore, casa editrice indipendente di Recanati, la “Trilogia di Provincia” composta dai tre libri “Piacere, Provincialotto”, “La gente mormorano”, e “Manifesto Radical Grezzo”.
Parla di lui dicendo: «Non sono diventato comico, ma scemo ci sono nato e non sarei mai riuscito a fare niente di tutto ciò se non ci fosse stata la pensione di mamma». Professa e crede nel Radical Grezzo, e si diverte a giocare, oltre che con gli strumenti del mestiere, anche con i vizi e le virtù di una terra bella come quella marchigiana.
Il pubblico televisivo nazionale lo ha potuto apprezzare recentemente per la sua partecipazione ad Italia’s Got Talent con una performance sul grande mimo francese Marcel Marceau, presentandosi al pubblico come Pier Marcel Marceau. È stato un grande successo, che ha meritato 4 entusiastici “sì” della giuria composta da Mara Maionchi, Federica Pellegrini, Joe Bastianich e Frank Matano, e che per un soffio non ha spuntato la qualificazione per la finale.
Qualche giorno fa, ricordando nei suoi canali social il compleanno di Marcel Marceau, Macchini ha pubblicato una lettera scritta in occasione della Giornata Nazionale in ricordo delle vittime del Covid, riflettendo sul ruolo dell’attore e su come questo periodo di chiusura dei luoghi del pubblico spettacolo cambierà il suo essere artista. «In tutto questo tempo ho imparato molto. Quasi mai sono salito su un palco, tranne qualche splendida eccezione. Mi sono guardato dentro più di quello che sono abituato a fare», si legge nella sua “Riflessione a voce alta di un attore seduto in platea”.
«Sono un attore, di teatro – prosegue Macchini -. Il teatro ti insegna ad andare oltre te stesso, a buttare il cuore oltre l’ostacolo. E allora ho ripreso in mano i miei perché, ed i miei come. Perché sognavo questa vita da artista e come, venti anni fa, mi immaginavo di essere oggi. Amavo leggermi dentro e commentare la mia vita come fossi uno spettatore. E allora riuscivo a vedere, della mia vita, il lato bello, il lato buffo e il lato bizzarro! E ridevo, e quanto ridevo! A volte piangevo: mi commuovevo al tenero pensiero di gesti d’amore familiari mascherati da sonore pacche sulla nuca (ancora me le ricordo!). A questi pensieri mi scendevano lacrime che mi affrettavo ad asciugare. Mi vergognavo: sono cresciuto con l’idea che gli uomini non piangono mai. E allora, tutte quelle volte in cui il mio viso era rigato, visualizzavo dove volevo arrivare: volevo essere un attore. E l’attore non può asciugare le sue lacrime per vergogna. No, non può. Non deve. Oggi sono qui, è il 18 marzo 2021.
Sono un uomo realizzato: sono un attore con alle spalle copioni digeriti e improvvisati, personaggi interpretati e amati. La mia casa, che è il teatro, è tutta impolverata. Ma la mia mente è diventata uno spazio ancora più aperto di quello che era: dialoga ancora di più con il cuore ed ha un privilegiato rapporto con i miei occhi. Ho imparato ad osservare di più, e a rimanere in silenzio. Così riesco ad ascoltare di più. E a capire di più. Finalmente ho imparato il significato dell’affermazione di Marcel Marceau: “È bene tacere ogni tanto”.
Oggi sono seduto in platea e guardo il palco vuoto: vorrei salisse un attore capace di tirare fuori dal suo baule il meglio di quello che è entrato in questi ultimi 12 mesi. Ne ha il dovere morale. E a farlo voglio iniziare anche io. Sono o non sono un attore?
Ci vediamo “domani”: io salirò sul palco, voi sarete in platea. E quando si aprirà il sipario e si accenderanno le luci, dovrà calare il silenzio in sala. Con affetto, Pier Marcel Marceau».
A sipari ancora chiusi – ma incrociando le dita sembrano questi i giorni del conto alla rovescia per la riapertura dei luoghi della cultura – ho “incontrato” da remoto Piero Massimo Macchini, chiedendogli come sta cambiando, appunto, il suo essere attore, oggi, e come lo immagina domani.
Nella tua performance a Italia’s got Talent, in tv, in un periodo di chiusura dei teatri, ho apprezzato l’equilibrio delicato tra leggerezza, comicità, il ricordo commovente dell’infanzia. È una nuova strada per te?
«In genere i miei spettacoli contengono spesso un aspetto ‘multiforme’. Ogni spettatore prende quello che vuole, c’è chi trova una risata grassa, chi riesce a vedere “the dark side of comico” e chi ha piacere di vivere solo di leggerezza. Diciamo che i miei spettacoli hanno più strati, poi dipende dalla sensibilità di ognuno vedere quello che gli interessa di più. Questo è il mio problema e la mia forza, perché a me piace fare tante cose diverse: posso lavorare in strada come su una piazza di una sagra come dentro un teatro. Quindi a seconda di dove mi trovo io mi trasformo, in strada il mio è un linguaggio ‘visual’ che vuole essere comprensibile a tutti, dal bambino fino all’anziano; a teatro l’esibizione è più riflessiva, ha una magia tutta sua che è la pausa teatrale; la piazza invece è una battaglia…
Il numero che ho portato a Italia’s got talent fa parte del mio repertorio, ma ho voluto interpretarlo in maniera nuova, a cominciare dal truccarmi dal vivo, senza specchi, direttamente davanti al pubblico e alla giuria. L’ho fatto per la prima volta, così, dal vivo. Ed ha funzionato. E’ stata una sensazione magica, sai quando tutto accade nel modo giusto, al momento giusto? Questo, peraltro, è un numero che mi è particolarmente caro, perché si lega ai miei ricordi di bambino, a mio padre, alla mia famiglia».
Quante memorie personali vivono nei tuoi spettacoli?
«Io dico sempre che l’unica storia che possiamo raccontare è la nostra, perché è l’unica che conosciamo bene. Poi chiaro, l’esperienza mi ha aiutato a comunicare in maniera più efficace attraverso l’umorismo, perché la risata non salva solo la vita, ma anche rende più facile lanciare dei messaggi».
Nella tua “riflessione a voce alta di un attore seduto in platea”, la risata non c’è, ma hai voluto dare un messaggio forte. Quale?
«Viviamo un periodo storico davvero nuovo per tutti. Io di solito guardo sempre al bicchiere mezzo pieno, non sono una persona che si abbatte. Per cui di questo periodo vedo una situazione drammatica ma anche l’aspetto ‘utile’ di aver messo in evidenza quelle che sono i problemi del settore, problemi di lunga data, e su cui è necessario mettere mano in maniera strutturale… Parlo dei diritti negati, del difficile riconoscimento verso il lavoro artistico che di fronte alla pubblica opinione quasi non esiste, e invece è prezioso e fondamentale.
Credo davvero che una società senza teatro sia una società morta, perché il teatro è quella cosa che sembra finzione ma dove tutto, alla fine, è profondamente vero, perché parla di noi e della nostra vita. Sento ora l’esigenza di tornare in palcoscenico con una coscienza nuova: in primo luogo credo sia importante lottare per i diritti di chi lavora nel mio settore,… e poi vorrei con il mio mestiere portare sempre di più agli altri qualcosa di bello e di utile».
Come hai vissuto l’anno dei sipari chiusi?
«Ho sofferto molto i primi quattro mesi di lock-down. Poi, alla riapertura, ho vissuto una bellissima estate, sono stato chiamato in molti luoghi a portare i miei spettacoli in situazioni davvero piacevoli, pubblico disciplinato, organizzazione perfetta… Poi i teatri sono stati chiusi di nuovo, è un periodo difficile ma lo sto vivendo ora in maniera più serena. Ad ogni modo, in questo anno non mi sono mai fermato, ho scritto, fatto video e lavorato moltissimo per il web, ma il teatro mi è mancato tanto».
Come è nata la tua carriera di comico?
«Io non ho deciso di fare questo mestiere, lo dico sempre, sono nato… scemo… Nel senso che sono nato con la vocazione di far ridere, mi viene naturale. Sarà perché sono nato dopo la morte di un fratello, di cui porto il nome: sono l’ultimo di 7 figli, mia mamma mi ha messo al mondo che aveva 45 anni, e quando sono nato ho riportato la gioia nella mia famiglia perché tre anni prima c’era stato un grave lutto. Per me far ridere è una specie di missione, che non ho mai smesso di praticare. I miei studi? Avrei voluto fare l’Accademia di arte drammatica, ma non mi hanno preso, e la mia grande fortuna è stato frequentare la scuola internazionale di teatro ‘Circo a vapore’, a Roma, che mi ha fatto conoscere maestri fantastici, insegnato i segreti della commedia dell’arte e la varietà delle arti sceniche. Poi non mi sono più fermato, sono un autore molto prolifico, scrivo uno spettacolo e almeno 150 video ogni anno, e collaboro con molti autori, registi, ed artisti con cui amo confrontarmi».
In questo tempo sospeso, molti hanno scoperto le potenzialità espressive del web e del digitale. Tu stesso hai prodotto molti video che ci hanno tenuto compagnia a distanza, ci hanno divertito e sono diventati virali. Peraltro sei un pioniere del settore. Hai scoperto qualcosa di nuovo in questo strumento?
«Non credo di aver scoperto qualcosa di nuovo, ma certamente ho ampliato l’uso del video in questo periodo, e approfondito le sue possibilità espressive. Mi sento un po’ pioniere in questo campo… Il canale Marche Tube l’ho aperto nel 2013, sulla scia dell’effetto Zelig quando appunto per un comico era un passaggio importante passare attraverso il video. Al tempo, lavoravo molto e in particolare scrivevo tanti spettacoli, ma ho colto nel web una possibilità in più per esibirsi».
Come è nato Marche Tube?
«Il canale è nato da un mio cruccio. Le Marche sono una regione che non si vuole spostare dalla sua zona comfort, i marchigiani non amano molto mostrarsi e quando si fanno vedere è sempre e solo con un turismo da cartolina, un linguaggio da pubblicità, senza mettere in luce invece l’essenza, il carattere di questa nostra bellissima terra. Io penso che possiamo anche esprimere emozioni con questo accento, non ci dovremmo vergognare di come parliamo e di come siamo… invece di essere fieri di noi, stiamo in disparte, come se gli altri valessero di più. Io non vivo questo sensazione di vergogna, ma continuamente la sento negli altri, come quando ad esempio mi chiedono ‘ma fuori ti capiscono”. Con Marche Tube, appunto, cerco di far conoscere l’essenza delle Marche, una regione bellissima e laboriosa, genuina e generosa, ma che sta in disparte a differenza dei nostri vicini credono di più in se stessi. Oggi i comici che vanno per la maggiore sono, ad esempio, gli abruzzesi, il loro dialetto va alla grande e piace, ma perché? Perché gli abruzzesi, ci credono, e il marchigiano no. Altro esempio, in Puglia c’è una televisione locale, Telenorba, con dati d’ascolto pazzeschi… perché? perché sa parlare alla sua gente, con la loro lingua, i racconti della loro comunità. Le Marche sono invece una regione al plurale con la gente che parla al singolare… Facciamo brand Marche per l’Italia, brand Marche per l’estero, ma non si fa mai brand Marche per i marchigiani… e allora mi domando, quando viene uno straniero nella nostra terra, noi come lo accogliamo? Lo sappiamo ricevere portandogli il nostro carattere autentico, la nostra indole generosa, le nostre belle tradizioni e il bel dialetto, oppure vogliamo continuare a nasconderci e a restare in disparte, lasciando il turista da solo a muoversi dentro un paesaggio da cartolina?».
Dunque, quale via per la comicità in ‘salsa’ marchigiana?
«In primo luogo, bisogna liberarsi dagli stereotipi. Sembra che il marchigiano fa ridere solo se lo dipingiamo come il contadino sul trattore, ma è uno stereotipo che ci fa perdere di vista la grande varietà delle professioni, gli splendidi dialetti e le meravigliose città, una cultura multiforme e ricca. A Roma i borgatari sono fieri dei loro quartieri, perché non dobbiamo essere orgogliosi delle nostre provincie?».
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