ANCONA – Una ricerca di Greenpeace, Univpm e Cnr-Ias mette in guardia sui residui di plastica ingeriti dai pesci nelle acque italiane.
Scampi alla griglia in plastica, zuppa di scorfano alla plastica, acciughe e sgombri al forno con plastica: sembra questo il menù delle tavole italiane questa estate. La plastica non ce la mangiamo, perché si concentra nell’intestino dei pesci, che abitualmente consumiamo eviscerati, ma l’allarme rimane e non va in alcun modo sottovalutato.
Il 35% dei pesci e degli invertebrati raccolti nel Mar Tirreno centrale, durante il tour “May Day Sos Plastica” condotto nella primavera dello scorso anno, aveva ingerito infatti fibre tessili e microplastiche (ovvero frammenti di dimensioni inferiori ai 5 millimetri). Le frequenze maggiori di ingestione riguardano specie provenienti dalle isole dell’Arcipelago Toscano, nell’area del Santuario dei Cetacei.
È quanto emerge dai risultati della ricerca diffusa il 22 luglio da Greenpeace insieme all’Università Politecnica delle Marche e all’Istituto per lo studio degli impatti antropici e sostenibilità in ambiente marino (Ias) del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Genova (qui il pdf del rapporto): sono stati esaminati in laboratorio oltre 300 organismi rappresentativi di diverse specie di pesci e invertebrati consumati abitualmente sulle nostre tavole come cozze, scampi, scorfani, acciughe e sgombri.
I dati diffusi mostrano un lieve peggioramento delle frequenze di ingestione di microplastiche (35%) rispetto a quelle osservate durante la precedente campagna effettuata nel 2017 (30%) e a quella riferita agli organismi del Mar Adriatico (27%). La ricerca ha evidenziato le frequenze di ingestione di microplastiche più elevate (fino al 75% degli organismi) nei campioni provenienti dalle isole dell’Arcipelago toscano, nell’ordine Giglio, Elba e Capraia, mentre le frequenze più basse sono state riscontrate nei campioni raccolti in Sardegna e limitrofe al porto di Olbia.
Inoltre, l’analisi di pesci, rappresentativi di diversi habitat, ha permesso di evidenziare che le specie demersali (ad esempio gallinella, scorfano, pagello fragolino, razza), che hanno una stretta relazione con l’ambiente di fondo dove si alimentano, presentano le frequenze di ingestione di microplastiche maggiori (75-100%) rispetto alle specie pelagiche, in quasi tutti i siti indagati.
«I risultati confermano ancora una volta che l’ingestione di microplastiche da parte degli organismi marini è un fenomeno diffuso e sottolineano la rilevanza ambientale di questa contaminazione», dichiara Stefania Gorbi, docente di Biologia Applicata all’Università Politecnica delle Marche. «La frequenza di ingestione maggiore in organismi che vivono a stretto contatto con i fondali conferma come i sedimenti possano rappresentare un comparto importante di accumulo della plastica e microplastica immessa in mare».
Proprio in queste settimane ricercatori dell’Università Politecnica delle Marche e del Cnr-Ias di Genova stanno svolgendo insieme a Greenpeace, con la nave Bamboo della Fondazione Exodus, la spedizione “Difendiamo il mare” in cui stanno eseguendo indagini approfondite sulla presenza di microplastiche e fibre in campioni di acqua e specie marine che vivono a contatto con i fondali dell’Arcipelago Toscano.
«I dati confermano la presenza di microplastiche in specie marine che consumiamo quotidianamente» dice Gorbi. «Il Santuario dei Cetacei è interessato da questa minaccia, in misura anche maggiore di altre aree campionate. D’altronde, a distanza di cinque anni, decine di tonnellate di rifiuti in plastica si trovano ancora su questi fondali. Il rischio è che le balle si deteriorino, trasformandosi in microplastiche e aggravando la contaminazione. Bisogna intervenire subito per rimuoverle».