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Sicurezza in mare, «Formazione e controlli: così si evitano tragedie come quella di Fano». L’intervista al presidente Fisa Perrotta

Parla Raffaele Perrotta, presidente della Federazione Italiana Salvamento Acquatico. «La sicurezza è il risultato di un algoritmo che impegna sia i bagnanti che i bagnini»

La tragedia a Fano

FANO – Dopo il dramma consumatosi sulla spiaggia di Gimarra, costato la vita a padre e figlio, in questi giorni è tornato in auge il dibattito sulla sicurezza in mare. Quanto consumatosi nella giornata di sabato purtroppo, dati alla mano, è molto meno raro di quello che si possa credere: pensare che queste disgrazie siano attribuibili alla semplice fatalità non aiuta in quello che dovrebbe essere un percorso di consapevolezza.

Per fare chiarezza su questa delicata tematica abbiamo chiesto lumi a Raffaele Perrotta, l’attuale presidente della Fisa, la Federazione Italiana Salvamento Acquatico. Ne è emerso che sono molteplici gli aspetti che andrebbero implementati per cercare di rendere più sicure le vacanze sui nostri litorali: «La sicurezza è il risultato di un algoritmo, un insieme di situazioni, che impegna sia i bagnanti che i bagnini – esordisce Perrotta – tanti sono gli aspetti che vanno tenuti in considerazione, serve un’ottica globale».

Abbiamo chiesto se le norme in vigore siano sufficienti e basterebbe rispettarle o serva una riforma: «Le regole presenti ed attualmente in vigore non bastano, ma il problema credo sia in quella che possiamo definire “mancanza di cultura del mare”: i bagnanti, le persone in vacanza spesso non sono a conoscenza delle ordinanze vigenti, del significato reale ad esempio della stessa bandiera rossa che vieta la balneazione. È fondamentale creare una conoscenza ed una coscienza informativa al riguardo… è auspicabile che questa “cultura del mare” diventi materia scolastica, magari all’interno dell’educazione civica. Così facendo già potremmo prevenire quell’80% di pericoli che derivano da una certa ignoranza nei riguardi del mare stesso. Prendiamo la bandiera rossa: magari un bagnante pensa che debba indicare mare grosso e invece indica la presenza di correnti marine altrettanto insidiose anche senza la presenza di cavalloni; si sottostimano anche le onde delle barche che possono rappresentare un pericolo per i più piccoli anche in caso di mare apparentemente calmo».

Alla non conoscenza del mare si aggiunge poi una certa “rilassatezza” dovuta alla situazione di vacanza: «In vacanza, è accertato che si relativizza il rischio. Ossia si ha una percezione diversa del pericolo anche con i più piccoli. Si ha quella che viene definita “attenzione passiva”: si controllano i più piccoli magari mentre si fanno quattro chiacchiere… si sottostimano le insidie e generalmente si sovrastimano le proprie abilità fisiche non tenendo conto dell’effettivo stato di salute o di forma, dell’esposizione al sole e di altre variabili personali che possono risultare decisive. Solo chi ha fatto una preparazione natatoria in mare può avere una consapevolezza della propria resistenza e fino a dove può spingersi, interpretare vento e correnti, sapersi orientare e tanto altro. Quando tutto questo manca ci si può imbattere anche in episodi gravi che possono portare all’annegamento e alle famose cinque fasi, anche se spesso si parla di tre fasi: stress, panico e sommersione del capo».

L’altro aspetto da tenere in considerazione è la formazione degli assistenti bagnanti: «Non sempre vengono loro dati gli strumenti giusti per affrontare il mondo del mare: mi riferisco sia alla preparazione che all’attrezzatura. Molto corsi ad esempio vengono fatti esclusivamente in piscina: le verifiche e gli esami per queste figure dovrebbero essere molto più esigenti. Ad oggi si può passare dal brevetto del salvataggio in piscina a quello in mare con sconcertante facilità: basta un esame di voga. A farne le spese poi sono loro stessi che non sono consapevoli della responsabilità, anche legale, che pesa sulle loro spalle. Un aspetto che poi mi piace sottolineare e che andrebbe sempre più sviluppato è quello che io chiamo “envisioning”: non si deve aspettare l’incidente ma bisogna imparare a prevenirlo. Questo si ottiene formando meglio chi deve controllare le spiagge, fornendo strumentazione idonea, anche innovativa. Non dico le moto ad acqua ma che il salvataggio non abbia in dotazione nemmeno un giubbotto al galleggiamento è veramente grave; a questo andrebbero aggiunte pinne e maschera. Altro aspetto è quello delle leggi: ad oggi sono 200 metri lineari che un bagnino deve vegliare: decisamente troppi in considerazione al numero dei bagnanti. Il paradosso è che in piscina, leggi alla mano, deve essere presente un bagnino ogni 25 metri…eppure il mare, con tutte le sue incognite, è estremamente più pericoloso. All’estero ad esempio, anche in nazioni dove la costa e le spiagge non ci sono o sono molto meno presenti rispetto l’Italia, le leggi sono fatte rispettare in maniera molto più rigida: penso a Svizzera e Germania; in quest’ultimo paese il salvamento è materia scolastica. Se ci si trova in acqua in presenza di divieti si rischiano multe salatissime, idem per il bagnino che non ha fatto rispettare il divieto».

A livello statistico non è ben chiaro quanti siano purtroppo i decessi correlati all’annegamento: «A livello statistico si parla sempre di 450/500 morti all’anno ma si tratta di stime un po’ miopi: non essendoci un database dedicato si parla generalmente di annegamento, senza distinguere tra annegamento blu, in cui il soggetto beve acqua ed affoga, e quello bianco, in cui la morte in acqua è correlata ad arresti cardiaci, malattie pregresse, sensibilità alla temperatura o al sole, il famoso water shock: quest’ultimo tipo di annegamento non viene annoverato dalle statistiche. Se si cambiasse la modalità del conteggio ci troveremmo davanti a dati statistici ben diversi».