STAFFOLO – “Staphilé” in greco, “grappolo d’uva” in italiano. L’affascinante leggenda narra che il nome di Staffolo derivi proprio da questo termine. I 2.300 abitanti del borgo, situato fra la valle dell’Esino e la valle del Musone, sanno bene che l’accostamento è assolutamente fantasioso. Ma è comunque dolce crederci. A raccontare questo aneddoto è la sindaca Patrizia Rosini, insegnante nonché profonda conoscitrice della storia del territorio, divulgata anche attraverso importanti pubblicazioni.
«Il nostro centro storico – spiega la sindaca – è sul crinale di un colle di 441 metri sul livello del mare. Esso risale al periodo medievale, ma la sua storia colloca i primi insediamenti in epoca romana. All’epoca dei Longobardi risale il toponimo (Staffal), che evoca il confine rispetto alla Pentapoli bizantina. Il castrum è legato alle vicende della famiglia Cima, originaria del luogo poi trasferitasi e divenuta più potente nei comuni di Cingoli e Filottrano. La cinta muraria conserva l’impianto originario con due porte di accesso contrapposte e vestigia di torri di guardia, in modo particolare il Torrione detto dell’Albornoz. Staffolo venne inglobato tra i Castelli di Jesi a forza e solo per alcuni anni nel corso del XIII secolo: a questo fatto è collegato il gesto del Palio cencioso che gli staffolani inviarono a Jesi, in parte emendato con il Palio rosato arricchito di versi (i Distici staffolani)».
Come molti altri paesi dell’entroterra marchigiano, racconta sempre la storica Patrizia Rosini, anche Staffolo conobbe l’emigrazione a partire dalla seconda metà del XIX secolo. «Fra gli emigrati si staglia la figura del primo veterinario d’Argentina: Giovanni Piermattei, ucciso a Rosario nel 1884 mentre svolgeva la sua delicata attività a difesa della salute dei cittadini – ricorda la sindaca -. In America, ma anche nei confini nazionali si mossero i migranti staffolani: a Roma si specializzarono nella ristorazione anche rinomata. Di contro, l’emigrazione è risultata negativa per il luogo di partenza in quanto molte abitazioni vennero semplicemente abbandonate e questo è uno dei problemi attuali che deve affrontare un amministratore».
Staffolo resta comunque il borgo delle eccellenze, non a caso Bandiera Arancione, marchio di qualità assegnato dal Touring Club Italiano. Non solo vino, insomma. «Spiccate le tradizioni musicali che risalgono al XVI secolo – sottolinea sempre Rosini -. Importanti seppur misconosciuti protagonisti della tradizione barocca sono i fratelli Costantini, compositori e maestri d’organo della Scuola romana del ‘600. Tale tradizione è mantenuta viva nell’attività della locale Banda musicale, del Gruppo folclorico e dell’Associazione Organistica Vallesina, che hanno consentito la composizione di brani musicali dedicati a Staffolo da parte di musicisti italiani e stranieri. La particolare conformazione del terreno e la sua esposizione hanno determinato le condizioni ottimali per alcune coltivazioni, in primo luogo la vite. Questa ricchezza è già attestata nelle cronache di Matteo Villani, ma sicuramente risale a secoli precedenti. Numerosi oggi i produttori che vendono in Italia e hanno conquistato i mercati esteri. Da sottolineare il fatto che molte di queste aziende sono guidate da giovani imprenditori agricoli, superando con successo uno dei problemi maggiori del settore, ovvero il ricambio generazionale. Accanto alla vitivinicoltura si sono affermate altre produzioni di qualità: formaggi e carni, miele, olio, prodotti biologici e salutistici. Tutto questo converge in una ristorazione che intercetta clienti ed estimatori, così come nelle proposte delle strutture ricettive di qualità (spa e agriturismo). Al vino e alla gastronomia è legato uno dei più longevi riconoscimenti accademici d’Italia: il Premio “Verdicchio d’oro” che il Comune di Staffolo organizza insieme con l’Accademia Italiana della Cucina da più di cinquant’anni. Più di recente, ricordo il gemellaggio con l’Accademia dello Stoccafisso di Ancona».
Non mancano tuttavia le criticità. «A queste eccellenze – osserva la sindaca – si contrappongono i problemi legati al piccolo commercio che ha subito una progressiva erosione causata dai grandi centri commerciali della valle. Come tutti i piccoli centri, anche il nostro vive la trasformazione della distribuzione su larga scala o via internet e ciò ha determinato la fine della conduzione familiare dei piccoli negozi: resistono i forni e piccoli discount, ma la desertificazione è evidente nel centro storico. Questo è anche per le piccole attività artigianali, legate alle manutenzioni e alle costruzioni edili. Piccoli segnali di ripresa ci sono nel settore metalmeccanico concentrato nella zona industriale di Coste. Quindi la rivoluzione della rete ha avuto un duplice aspetto: potenzialità di commercializzazione ad ampio raggio per i prodotti locali e della ricezione turistica, riduzione della distribuzione al minuto».
Quali i progetti da portare a termine? «In primo luogo, superare l’emergenza terremoto, che qui ha causato danni soprattutto nelle chiese e nelle case abbandonate da tempo, caratteristica dei centri dell’entroterra che hanno registrato uno spostamento abitativo».
Altro argomento molto dibattuto in questi anni: fusioni e accorpamenti fra i piccoli Comuni. Patrizia Rosini ha da sempre una sua idea: «I servizi sono al centro di ogni azione amministrativa, ma i progressivi tagli ai bilanci e al personale degli Enti locali non lasciano spazio a progettualità alte e costringono a rivisitare il concetto stesso di Comune. Mi spiego meglio: l’idea del Paese Italia che emerge da alcuni progetti, come quello di fusione dei piccoli centri, rimanda ad una centralizzazione del potere e della rappresentanza, ma anche delle attività economiche e commerciali nelle aree metropolitane, lasciando privi di rappresentanza politica e di servizi interi territori dell’entroterra, costringendo chi vi abita a lunghe percorrenze, spesso su strade già di per sé malagevoli e, da alcuni anni, oggetto di scarsa manutenzione, soprattutto dopo la “fine/non fine” delle Province. Ipotizzare scuole a valle, trasferire gli anziani in grandi strutture centralizzate, far convergere quotidianamente tutte le persone nelle città non significa portare servizi, significa spogliare definitivamente un territorio della propria ricchezza, tradizioni ed identità. Nello stesso tempo significa disegnare un’Italia che non c’è mai stata. Può essere una strada, ma non è quella che io auspico, come Sindaco di un piccolo paese. Credo molto alla formula dell’associazionismo nei servizi, come è quello in atto nell’Ambito Territoriale IX, legato al sociale e alla sanità. Così facendo, la voce dei cittadini sarebbe uguale, indipendentemente dal luogo di residenza, rispettando il principio costituzionale».