Attualità

Strage di Corinaldo, le difese: «Sparito un macchinario del fumo»

Giornata di arringhe ieri (10 Marzo) per il processo di appello della banda dello spray. Il 17 marzo la sentenza

ANCONA – Dubbi sul nesso casuale tra lo spray al peperoncino e la fuga in massa che provocò la morte di cinque minorenni e di una mamma e approfondimenti mancanti su uno dei due macchinari del fumo scenico che addirittura sparì dalla discoteca il giorno dopo la tragedia di Corinaldo, avvenuta la notte tra il 7 e l’8 dicembre del 2018.

Sono i punti messi in evidenza ieri, nelle arringhe difensive, ad Ancona, nell’udienza di Appello per la banda dello spray imputata per i fatti della Lanterna Azzurra. Più che lo spray al peperoncino anche i fumi avrebbero avuto un ruolo. Ne è convinto l’avvocato di Ugo Di Puorto, uno dei sei imputati della banda della Bassa Modenese, Carlo De Stavola, che ha spiegato davanti alla Corte di Assise di Appello come uno dei macchinari per il fumo fu ritrovato solo dopo un mese, grazie ad una rogatoria, a San Marino, a casa dell’addetto ai fumi di quella sera. Il macchinario sarebbe stato mal funzionante.

Ieri è stata la penultima udienza per la banda, prima del verdetto che arriverà tra una settimana, il 17 marzo, quando si terranno le repliche e i giudici si ritireranno in camera di consiglio. Gli imputati erano tutti collegati dai propri carceri tranne Moez Akari, presente in aula e tradotto dal carcere di Montacuto dove è recluso. Raffaele Mormone e Badr Amouiyah, collegati via video, hanno rilasciato dichiarazioni spontanee chiedendo scusa per i loro trascorsi relativamente ai furti di collanine negando però di aver provocato i morti alla Lanterna. Ieri le arringhe difensive sono state sostenute anche dai loro avvocati, Pierfrancesco Rossi per Mormone e Alessandro Cristofori per Amouiyah che si è soffermato sul mancato rispetto delle norme di sicurezza quali cause delle morti avvenute e sulla esclusione dell’associazione a delinquere. La banda dello spray è stata già condannata in primo grado con pene tra i 10 e i 12 anni di carcere. In Appello la Procura generale ha chiesto sei mesi in più per il reato associativo.