Benessere

“Bambini sostitutivi”: messi al mondo per colmare il dolore della perdita

I figli nati dopo la morte di un altro figlio possono essere investiti del compito di colmare il dolore, una condizione che li espone a rischio psicopatologico

(Foto Pixabay di Congerdesign)

Il termine risulta sgradevole, perché nessun figlio morto potrà mai essere sostituito da nessun altro e perché ogni vita è unica e irripetibile, ma viene convenzionalmente usato in psicologia per indicare la condizione di quei figli che vengono messi al mondo per colmare il dolore della perdita di un altro figlio. Il “bambino sostitutivo” ha il compito di riempire un vuoto lasciato nella famiglia da un fratello o una sorella morti prima della sua nascita. Questo non significa affatto (è importante sottolinearlo) che ogni nuovo bambino che venga al mondo dopo la morte di un altro figlio sia un bambino sostitutivo: il rischio c’è in quelle situazioni in cui il lutto per la morte di un figlio non sia stato sufficientemente elaborato e i figli che arrivano dopo siano investiti dell’aspettativa di colmare la perdita precedente. Anche i fratelli o le sorelle più grandi del bambino che viene a mancare possono essere investiti del ruolo di sostituti, ma il rischio è maggiore per il nuovo bambino che nasce o che viene adottato dopo la perdita, in particolare se viene attivamente cercato con questo proposito. Ciò che caratterizza la condizione di figlio sostituto è l’essere accolto in famiglia “al posto di” qualcun altro, piuttosto che come individuo a sé, con una sua identità, libero di svilupparsi in qualunque direzione.

La “sindrome del bambino sostitutivo” è stata concettualizzata per la prima volta negli anni ’60 dai coniugi Albert e Barbara Cain, rispettivamente psichiatra e assistente sociale. Essi coniarono il termine per indicare i bambini concepiti poco dopo la morte di un altro figlio. In questi bambini, riscontravano sintomi di nevrosi e psicosi dovuti all’atmosfera di sofferenza che soffocava la loro crescita e all’impossibilità di avere un’identità propria. Gli studi successivi hanno fatto luce su un fenomeno complesso, distinguendo le situazioni patologiche da quelle sane, identificando i fattori di rischio e contribuendo a fare emergere la sofferenza di questi figli, a lungo misconosciuta.

Perché questi bambini corrono un maggior rischio psicopatologico?
I figli sostitutivi possono sentire di essere nulla più che “l’incarnazione di un ricordo” (Sabbadini, 2008), piuttosto che esistenti di per sé. Possono sentire di dover essere una copia dei fratelli morti e che questo sia l’unico modo per avere l’amore dei genitori. Possono sentirsi perennemente inadeguati nel confronto con i fratelli morti che invece vengono idealizzati come figli e bambini perfetti e che rappresentano perciò un ideale irraggiungibile. Il fratello morto non c’è più, ma allo stesso tempo è sempre presente, un’ombra costante, sia che in famiglia non si parli d’altro, sia che regni un tabù per cui non può essere nominato. Il bambino (e successivamente l’adulto) sostitutivo non è libero di vivere la sua vita, si sente in colpa se realizza sé stesso. Sente inoltre la responsabilità di dover assolvere a una funzione salvifica verso i genitori consolandoli, essendo come il bambino perduto, oppure essendo chi può riportare la gioia. Può provare rabbia ed emozioni ambivalenti verso il fratello defunto, con conseguente senso di colpa.

L’atmosfera familiare può essere caratterizzata da pervasive tematiche di morte, da pratiche inusuali relative al lutto, da continui riferimenti al figlio morto, da tristezza e nostalgia. I genitori possono essere condizionati dal timore che possa accadere qualcosa anche al nuovo nato, essere ipercontrollanti e restrittivi tanto da ostacolarne l’adattamento. I figli sostitutivi crescono con genitori in lutto, che pertanto possono essere emotivamente distanti, assorbiti dalla nostalgia dell’altro figlio scomparso, genitori in difficoltà nel fornire cure emotive a causa del lutto. Possono trovarsi ad accudire i propri i genitori, in un’inversione di ruoli. I genitori possono essere così addolorati e traumatizzati dalla perdita di un figlio, che non si rendono conto delle dinamiche che mettono in atto nei confronti degli altri figli già presenti o di un nuovo nato.  Le conseguenze osservate nei bambini sostitutivi comprendono sintomi molteplici di disagio tra cui insicurezza, ansia, fobie, immaturità, sintomi isterici che riproducono malattie dei fratelli e sorelle morti, comportamenti abnormi rispetto alla morte, disturbi dell’attaccamento.

Alcuni comportamenti e situazioni segnalano più di altri il rischio che si determini una condizione di bambino sostitutivo:

Il lutto non elaborato. I genitori si trovano in una condizione di  negazione del lutto  e spostano aspettative, aspirazioni e investimento dal bambino perduto al nuovo bambino: le immagini dei due individui si sovrappongono, i sentimenti e le aspettative si sovrappongono. Il nuovo bambino ha il compito di consolare i genitori che non riescono ad affrontare il proprio dolore. Il rischio è che non ci sia il desiderio di avere un nuovo bambino, ma il desiderio inconsapevole di riavere quello perduto.

Il tempo che intercorre tra morte e nuova nascita: cercare una nuova gravidanza immediatamente dopo la perdita, prima che il fisiologico tempo del lutto possa aver fatto il suo corso, può indicare una difficoltà ad affrontare ed attraversare il dolore del lutto e il tentativo di negarlo investendo subito su un nuovo bambino. Se la morte del figlio precedente è avvenuta nel periodo perinatale, la nuova esperienza di gravidanza riattiva continuamente i ricordi della gravidanza precedente e costituisce di per sé un’esperienza psicologicamente stressante. Per contenere lo stress, come meccanismo di difesa può subentrare nel genitore un disinvestimento con cui cerca di evitare l’attaccamento al bambino, con conseguenze negative sulla funzione genitoriale e con il rischio che il bambino sviluppi un attaccamento disorganizzato, correlato a psicopatologia. D’altra parte, un tempo breve tra morte e nuova nascita non è necessariamente indicatore di lutto non elaborato.

-Dare al nuovo nato il nome del figlio morto è un’altra scelta densa di significati, spesso presente nelle situazioni in cui c’è un figlio sostitutivo. Da un punto di vista psicologico, è un campanello d’allarme che suggerisce a noi clinici la necessità di approfondire il modo con cui il nuovo figlio è percepito nella mente dei genitori, ed è anche una scelta che sconsigliamo di compiere. D’altra parte, le ricerche sul vissuto delle persone che portano il nome di un fratello o sorella  morti forniscono risultati non univoci. La ricerca condotta nel 2020 da I.Testoni et al. ha rilevato ad esempio che una parte degli intervistati sentiva che la propria identità era stata negata, mentre un’altra parte portava con orgoglio il nome della persona prematuramente scomparsa. Coloro che vivevano negativamente l’essere omonimi di un fratello o sorella deceduti, riferivano il dolore di non sentirsi unici, di non sentirsi sé stessi, di non essere riconosciuti, di non avere una propria identità ma essere solo una copia del fratello morto, il senso di colpa di essere in vita, la continua rivalità con l’ideale rappresentato dal defunto. Chi invece riferiva orgoglio e onore nel portare lo stesso nome, presentava anche altre caratteristiche che possono spiegare questo esito positivo: il nome  del fratello/sorella scomparsi era anche il nome di un nonno o una nonna, inoltre non avevano mai percepito su di sé da parte dei genitori la proiezione del fratello morto.

Nascere dopo la morte di un fratello o di una sorella rappresenta una situazione particolare meritevole di attenzione perché potenzialmente a rischio di una dinamica di “bambino sostitutivo”, ma non è necessariamente patogena. Ciò che conta sono i significati che i genitori attribuiscono al figlio morto e agli altri figli e la loro capacità di accogliere i figli successivi alla perdita rispettandoli e amandoli nella loro individualità, garantendo loro uno spazio unico in cui potersi liberamente sviluppare.

Dott.ssa Lucia Montesi Psicologa Psicoterapeuta
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