«Mi ha fatto sempre soffrire, già dall’inizio. Infatti ai miei genitori non piaceva, dicevano che non era la persona giusta per me. Ma anche con tutti i suoi problemi, io ho voluto andare avanti a tutti i costi». «E come mai ha tollerato di soffrire così?». «Perché pensavo che grazie al mio amore sarebbe cambiato».
«Con il mio amore, cambierà», parole che ascolto spesso nel mio lavoro, convinzioni cieche e incrollabili che persistono di fronte a ogni evidenza contraria e che possono condurre dentro un abisso di sofferenza, rabbia, recriminazioni. Una persona relativamente “sana” psicologicamente si lega a un’altra palesemente disfunzionale. Penso al classico binomio lei brava ragazza – lui poco di buono, ma gli esempi possono essere infiniti e anche a generi invertiti, pure se le donne sono più propense ad avviare e mantenere questi schemi relazionali. Oppure, anche quando l’altro non è palesemente disturbato, gli vengono costantemente rimproverati atteggiamenti, comportamenti e sentimenti e gli viene chiesto di cambiarli: «Io ti aiuterò con il mio amore», «Grazie al mio amore diventerai migliore».
Quando la persona “salvatrice” arriva di me, lo fa perché questo progetto di modificare l’altro manifesta tutti i suoi limiti. L’altro non cambia. «Eppure mi basterebbe poco, perché non lo fa per me? Dopo tutti i sacrifici che ho fatto io!». Il pensiero è: “io ti amo anche se mi fai soffrire, ma tu sforzati di cambiare, e così saremo felici”. La persona è dentro questa logica lineare e reclama il cambiamento dell’altro a fronte del proprio amore. Anche la richiesta d’aiuto che porta a me è: fallo cambiare. È completamente inconsapevole del gioco relazionale molto più sottile in cui è incastrata insieme al partner “difettoso”.
Solo lavorando con onestà su di sé, può arrivare a percepire il proprio contributo attivo al perpetuarsi di questo gioco. Può scoprire di avere essa stessa bisogno di un partner perennemente problematico da modificare, perché questo la fa sentire importante, potente, giusta, perché le consente di riparare sensi di colpa o antiche ferite del passato. Il suo amore ha come condizione un altro da modificare, e quindi l’altro non può, non deve cambiare, perché se cambiasse, verrebbe meno proprio ciò che fonda e sostiene il legame. L’altro che non cambia perciò è a un livello superficiale il cattivo ingrato che minaccia il legame, ma a un livello più profondo è invece proprio colui che ne consente il perpetuarsi.
«Io lo amo nonostante mi faccia soffrire», «Io lo amo nonostante non si sforzi neanche di cambiare», dice il partner “salvatore”. Non si accorge che la dinamica più profonda che lo incastra è «Io lo amo proprio perché mi fa soffrire», «Io lo amo proprio perché non si sforza neanche di cambiare», e il legame così prosegue in un eterno inseguimento. Pensare che l’altro cambi è un’illusione non tanto perché l’altro non lo farà, ma per questo contratto implicito su cui si fonda la coppia.
Chi vuole cambiare l’altro rivendica la grandezza e la superiorità del proprio amore contrapponendole alle mancanze del partner. Solo con molta fatica e dolore, può accorgersi che non si può chiamare amore il costante denigrare l’altro e tentare di modificarlo. Ama non l’altro, ma ciò che vorrebbe diventasse, e perciò, non lo ama. Non lo riconosce, non lo accetta com’è, non lo apprezza. Ama un’idea dell’altro.
La strada per uscire da questi giochi al massacro è fermarsi e reindirizzarsi su di sé. Smettere di portare l’attenzione sulle colpe dell’altro e ricondurla a sé, per ricontattare i propri bisogni, le proprie ferite irrisolte e imparare a impostare con l’altro un legame più sano, basato sull’accettazione, il riconoscimento e il rispetto reciproci.
(Dott.ssa Lucia Montesi-Psicologa Psicoterapeuta, Piane di Camerata Picena (An), Tel. 339.5428950)