Il contatto fisico è un bisogno fondamentale per la maggior parte degli esseri umani. Per i bambini è un’esigenza vitale, indispensabile per la crescita: i bimbi in orfanotrofio allevati senza carezze e abbracci, come osservava R. Spitz, riportano danni irreversibili nello sviluppo motorio, cognitivo e affettivo.
Il contatto fisico è lo strumento più potente per dare conforto a un bambino malato, per placare il dolore fisico ed emotivo. È la prima raccomandazione anche di fronte a un trauma terribile come la perdita di un genitore: abbracciare, stringere il bambino e accarezzarlo, stimola la produzione dell’ormone ossitocina che rilassa e allevia la sofferenza.
Anche da adulti cerchiamo conforto nel contatto fisico. Quando siamo spaventati, la prima reazione è di aggrapparci a qualcuno, stringerci a chi è vicino, poter tenere una mano. Nei commoventi racconti che ascoltiamo in questi giorni da persone malate di Coronavirus e dai sanitari che le assistono, ricorre la penosa descrizione della solitudine e il bisogno di stringere almeno la mano di un’infermiera per qualche minuto, per ricevere vicinanza e coraggio.
Non solo il tocco ora ci è impedito, ma anche lo sguardo è in gran parte occultato dalle mascherine, gli occhiali, le visiere. Non abbiamo accesso a gran parte dei segnali non verbali con cui normalmente comunichiamo: diventa più difficile decodificare il messaggio dell’altro e abbiamo pochi strumenti per esprimerci, soprattutto per trasmettere la tonalità emotiva con cui le nostre parole vanno intese.
Ci viene a mancare proprio tutto ciò che è più potente e che di solito ci viene in soccorso nel momento in cui le parole non ci sono o non bastano. Quante volte, ad esempio, noi psicologi rassicuriamo gli operatori o i volontari, preoccupati di non saper trovare parole per dare conforto a un assistito, dicendo che possono già fare molto restando accanto, offrendo la propria presenza, usando uno sguardo attento e premuroso, un sorriso rasserenante, o tenendo, appunto, la mano se la persona lo desidera? All’improvviso invece ci troviamo monchi, violentemente privati dei mezzi con cui da sempre ci esprimiamo e ci rapportiamo con gli altri.
Prima di passare completamente al lavoro da casa utilizzando le videochiamate e le telefonate, ho continuato per alcuni giorni a vedere le persone in ospedale e in studio, nel periodo in cui per la prima volta ci veniva raccomandato di tenere la distanza di almeno un metro ed evitare abbracci e strette di mano. Soprattutto in Oncologia, buona parte del mio lavoro consiste nell’accogliere le persone spaventate dal cancro e dalla chemioterapia, trasmettere loro calma e fiducia, farle sentire a loro agio in un ambiente inquietante. Accade spesso che vogliano mostrarmi da vicino una parte del corpo colpita e sofferente, possono chiedermi di toccarle, oppure mi prendono la mano quando sto accanto al loro letto, o mi chiedono se possono abbracciarmi nel momento di salutarci per esprimermi la loro gratitudine.
Dover frapporre una distanza, bloccare lo slancio di un abbraccio o anche solo trattenere l’impulso di porgere la mano per accogliere un paziente appena arrivato, è stato faticoso e frustrante. La mascherina ero già abituata ad indossarla dal periodo in cui lavoravo in ematologia, con le persone che vengono curate nelle camere sterili, in cui si può accedere solo dopo aver indossato mascherina, camice, calzari e cuffia. Avevo già imparato a concentrare negli occhi quello che non potevo esprimere col resto del viso che restava coperto, o ad usare i gesti per veicolare emozioni e per trasmettere sollecitudine e calore emotivo.
Ora è sempre più difficile: lavoro solo a distanza, quando va bene con videochiamate, ma altre volte solo con una telefonata. Capita che dall’altra parte ci sia una persona anziana poco avvezza alle nuove tecnologie, o qualcuno che per vergogna o altri motivi è restio a mostrarsi in video. Mi trovo così a fare colloqui con persone che non conosco, che non ho mai visto, in un momento di forte stress e sofferenza emotiva com’è una diagnosi di cancro, per giunta nel contesto di una pandemia, col solo ausilio del telefono e il solo mezzo della voce.
Ero scettica sull’utilità di un primo colloquio svolto in questo modo e preoccupata di non poter realizzare e costruire un rapporto umano intenso come accade in ospedale.
Invece la mancanza di altri canali mi ha aiutato ad affinare la sensibilità, a fare attenzione a ogni sfumatura della voce, a cogliere un’incrinatura, a percepire lo stato d’animo anche dal respiro, a capire il ritmo del discorso dell’altro, a cogliere le pause per non sovrappormi. Sto più attenta a calibrare la voce quando telefono, scelgo con più cura le parole nei messaggi, dedico più tempo a scegliere quella più adatta tra le emoticon che magari prima snobbavo, perché non ho altro per poter esprimere accoglienza, comprensione, incoraggiamento, solidarietà, speranza, condivisione. E inaspettatamente, molti di questi colloqui sono stati più belli di quelli fatti di persona.
Con gli altri pazienti già conosciuti, al limite della distanza fisica si contrappone paradossalmente un guadagno in maggiore intimità. In questo periodo in cui siamo chiamati a restare in casa, allargano l’inquadratura della videochiamata e mi mostrano la cagnolina che gli dorme accanto, o mi fanno vedere il dolce appena sfornato, la neve che cade fuori dalle loro finestre, il quadro che hanno dipinto insieme ai loro bambini. Nel contesto familiare della propria casa, in abiti comodi, senza trucco, a volte spettinati, disorientati dagli improvvisi cambiamenti di vita a cui tutti siamo sottoposti, si allentano anche gli abituali filtri e barriere.
A volte salta la connessione e allora dobbiamo accontentarci di una più scarna telefonata, ma è la volontà di mantenere il legame che fa trovare e apprezzare nuovi modi per restare in relazione.
La distanza a cui siamo costretti in questo momento rende più acuta la mancanza e amplifica la percezione di ciò che per noi è importante, ma allo stesso tempo il poco che ci resta per poter comunicare si carica di intensità e significato, diventando così più potente.
Dott.ssa Lucia Montesi Psicologa Psicoterapeuta
Piane di Camerata Picena (AN)
Montecosaro Scalo (MC)
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