“Quando eravamo bambini, pensavamo che una volta cresciuti non saremmo più stati vulnerabili. Ma crescere vuol dire accettare la vulnerabilità. Essere vivi significa essere vulnerabili”. (Madeleine L’Engle). Vulnerabilità e fragilità sono parole con cui ho dimestichezza. Sono stata considerata una bambina fragile di salute, e poi fragile emotivamente, troppo sensibile per “sgomitare e farsi strada”. Ho studiato psicologia perchè volevo capire, e forse anche con la speranza segreta di fortificarmi, sempre in lotta con la mia vulnerabilità.
Solo lavorare in oncologia per tanti anni mi ha davvero riappacificato con questa parte di me. In quale posto si potrebbe essere più fragili, che in oncologia? Fragili nel corpo, tagliuzzato, svuotato, mutilato, ferito, nauseato, rasato; fragili nella mente, improvvisamente alle prese col pericolo della morte. Quella frase sentita tante volte, che “nella fragilità si trova la forza”, in realtà l’ho capita solo lì. A un livello elementare, accettare di ritrovarti fragile ti fa essere più cauto, ti induce a proteggerti, a curarti e perciò, anche solo per questo, ha una funzione evolutiva. Ma chiunque metta piede in oncologia, si rende presto conto della potenza trasformativa della fragilità e della vulnerabilità: nel momento in cui accettiamo di sentirle, acquistiamo la lucidità e la determinazione per fare anche ciò che non abbiamo mai avuto il coraggio di fare. Sappiamo che le forze fisiche sono limitate e perciò le indirizziamo con più precisione, sappiamo che potremmo non avere ancora molto tempo e perciò troviamo l’energia per dedicarci a quello che veramente conta per noi. E così paradossalmente, proprio nella fragilità troviamo la forza.
Normalmente, la maggior parte delle persone non sperimenta livelli di fragilità simili a quelli di un malato di cancro e fa anche molta fatica a comprendere cosa si possa provare, ancora meno a immaginare che tanta sofferenza possa essere evolutiva. Il covid-19 è probabilmente la prima occasione che ha comportato per tutti, quasi indistintamente, una condizione di vulnerabilità almeno in parte paragonabile. Una malattia che può diventare molto grave e mortale, che colpisce duramente il corpo; in più, una malattia sconosciuta, dall’andamento imprevedibile, e che costringe a stare lontani proprio quando più avremmo bisogno di un abbraccio.
Pensavamo che in Italia non sarebbe arrivato, che avremmo retto grazie al nostro moderno ed efficiente sistema sanitario, invece siamo stati travolti con velocità imprevista. Eravamo abituati al pericolo collocato altrove, a riceverne solo l’eco proseguendo nelle nostre vite tutto sommato protette. Il mondo è un posto molto fragile ma noi crediamo di poterlo controllare. A volte ci riesce, a volte no. Se non ci riesce, cerchiamo colpevoli, immaginiamo complotti, contrapponiamo spiegazioni risolutive, e facciamo fatica ad accettare che la realtà sia più complessa, che siamo sguarniti e che siamo tanto vulnerabili. E soprattutto ci dimentichiamo costantemente che dobbiamo morire, a meno che non intervenga qualcosa di poderoso a ricordarcelo.
Ora abbiamo comprensibilmente fretta di tornare alla normalità, ma non mancano coloro che dicono di voler portare con sé qualcosa da questa esperienza. Quasi tutti dicono «Voglio mantenere i ritmi meno frenetici di questo periodo», oppure «Voglio portare avanti un hobby che ho riscoperto stando in casa», o ancora «Voglio mantenere l’abitudine di giocare di più con i miei figli». Sono di solito persone che sono riuscite a vivere questo momento con relativa serenità e che intendono portare avanti attività sane e utili che hanno saputo avviare o recuperare in quarantena. Altri invece non sono riusciti a fare niente e arrivano addirittura a sentirsi in colpa per non aver saputo “sfruttare” in modo proficuo questo tempo, molti si rammaricano di aver ceduto ad angoscia, paura, preoccupazione, rabbia senza riuscire a pensare ad altro. Ma se non le sentiamo ora, certe emozioni dolorose, allora quando? Anche per chi non è stato fortunatamente toccato da lutti e dalla malattia, questo periodo ha significato essere immersi in un mondo all’improvviso stravolto, privati della libertà, impossibilitati a vedere le persone care, senza possibilità di mettersi in salvo in nessun luogo del mondo, perchè per la prima volta nella nostra vita nessun posto del mondo è risparmiato dal pericolo; ha significato la conta angosciante dei morti due volte ogni giorno, le immagini degli intubati, i racconti di chi ha visto i propri anziani morire soffocati. Se non percepiamo la nostra vulnerabilità ora, in quale altra occasione? Cosa deve accadere, di più? E anche se la neghiamo e ci mettiamo un tappo sopra, sta comunque lì. Se ci permettiamo di sentirla, attraversarla e accoglierla, possiamo farne un uso prezioso, come da sempre fanno i miei pazienti oncologici, costretti dalla durata della malattia o delle cure a venire prima o poi all’appuntamento con il proprio sentire.
Anche se toccare con mano tutta la nostra vulnerabilità è ciò che ci ha fatto così male in questa esperienza ed è ciò che vorremmo presto dimenticare e cancellare, invece, pur nel dramma che ha comportato, conservarne il doloroso promemoria può farci bene. Accettare la vulnerabilità vuol dire permettersi di esprimere le emozioni senza doverle nascondere, né agli altri né a sé stessi, evitando un immane e inutile spreco di energia e imparando così anche a gestirle; non dover costruire una corazza che, come non fa passare le emozioni dolorose, non fa passare neanche il resto; riconoscere i nostri limiti e non rischiare di crollare oltrepassandoli; volersi bene e fare attenzione a proteggersi, a maneggiarsi con cura. Accettare la nostra vulnerabilità fa bene non solo a noi ma anche agli altri, perchè diventiamo più attenti, sensibili, abbiamo uno sguardo più comprensivo; stabiliamo relazioni più autentiche in cui ci sentiamo più connessi con gli altri, fragili quanto noi; chiediamo senza vergognarci di avere bisogno; ci tratteniamo meno per orgoglio; chiediamo meno faticosamente scusa.
Dott.ssa Lucia Montesi
Psicologa Psicoterapeuta
Piane di Camerata Picena (AN)
Montecosaro Scalo (MC)
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