L’intuizione che sintomi e disturbi psicologici possano in qualche modo essere collegati alle relazioni con gli altri è comune anche in chi è completamente digiuno di psicologia. Succede molto spesso che le persone arrivino in psicoterapia con una propria ipotesi “relazionale” sull’origine dei loro problemi: «Penso che la mia carenza di autostima dipenda dal fatto che i miei genitori non mi apprezzavano», «Sono diventata così attenta alle esigenze degli altri perché mia madre era depressa», «Mi sono venuti gli attacchi di panico per il mobbing che ho subito dal mio capo», «Sono diventato così insicuro dopo che mia moglie mi ha tradito», «Sono ipocondriaca perché i miei genitori erano ossessionati dalle malattie».
L’idea che un sintomo psicologico possa dipendere dalle relazioni con gli altri è perciò facilmente accettata. Questa visione si limita però all’origine del sintomo e lì termina, secondo un meccanismo lineare di causa-effetto per cui una situazione relazionale ha prodotto un sintomo o un disturbo in un individuo che poi se lo porta dietro e ne subisce le conseguenze. In questa ottica, il sintomo è un prodotto passivo, una scomoda eredità che non ha nessuna funzione e che è necessario eliminare perché la persona possa riacquistare il suo benessere.
La psicologia sistemico-relazionale, nata negli Stati Uniti negli anni ’50, ha allargato lo sguardo sugli aspetti relazionali dei sintomi e dei disturbi psicologici, evidenziando come questi svolgano anche una funzione attiva nelle relazioni attuali della persona, abbiano un significato, siano un “messaggio relazionale” con una propria utilità, con importanti conseguenze sull’interpretazione del disagio psicologico e sulla sua terapia.
Nell’ottica sistemico-relazionale, un sintomo psicologico non è qualcosa di interno all’individuo ma è strettamente collegato al suo contesto relazionale, in particolare quello familiare (sia della famiglia di origine che di quella attuale), dove è influenzato dal comportamento degli altri e a sua volta lo influenza. La persona che sviluppa il sintomo si considera ed è considerata dagli altri quella malata, disturbata, con la convinzione che sia lei ad avere qualcosa che non va e che se lei risolvesse i suoi problemi, tutto filerebbe liscio e tutti starebbero bene. Nell’ottica sistemica, invece, il problema del singolo non è considerato come una sua malattia ma come un prodotto delle dinamiche del sistema. I nostri contesti di vita (la famiglia, la coppia, il gruppo dei colleghi di lavoro, ecc.) sono appunto dei “sistemi” dove ogni mossa di uno influenza anche gli altri e dove l’insieme tende a mantenere un proprio equilibrio più o meno sano, dove ogni membro svolge un ruolo. Un sistema sano e flessibile riesce ad accogliere i cambiamenti e a trasformarsi ed evolvere, un sistema disfunzionale e rigido no. Quando qualcosa minaccia l’equilibrio in un sistema rigido, un membro del sistema diventa “il paziente designato” che con il suo disturbo permetterà a tutti di mantenere i propri ruoli e al sistema di non andare incontro a un cambiamento. Anche il paziente designato, pur soffrendo per i suoi sintomi, ricava dei vantaggi che contribuiscono a mantenere il sintomo e ostacolare un cambiamento o la “guarigione”.
Facciamo degli esempi:
– La depressione di un giovane adulto può essere il modo con cui i suoi genitori possono mantenere un ruolo di accudimento che fanno fatica ad abbandonare e per il ragazzo un modo per evitare rischi e responsabilità di crescere e fare delle scelte.
– Gli attacchi di panico di una signora di mezza età, che la costringono a chiedere la continua presenza del marito, possono essere un modo per restituire un ruolo utile al marito in crisi dopo il pensionamento, e allo stesso tempo un modo per averne le attenzioni oppure per controllarlo.
– L’ipocondria di una ragazza può essere il modo con cui ottiene attenzione e vicinanza dalla madre medico spesso assente per lavoro, “usando” un tema in cui la madre è esperta, e allo stesso tempo il modo con cui la madre realizza la propria parte materna, accudente e protettiva, oppure compensa il senso di colpa per la propria assenza.
– I disturbi alimentari di un figlio possono essere il modo con cui i genitori sviano l’attenzione dai propri problemi di coppia per concentrarsi sulla preoccupazione per il disturbo, e allo stesso tempo possono essere per il figlio un modo per avere un potere sulla famiglia tenendola insieme.
– In una coppia di amici, il continuo cacciarsi nei guai di uno può essere il modo con cui l’altro mantiene il ruolo di guida e consigliere, mentre quello “problematico” può esprimere in questo modo ricerca di un sostegno ma anche aggressività e ribellione.
Il disturbo di uno ha quindi un senso all’interno delle sue relazioni con gli altri e, per quanto faccia stare male, ha una sua utilità sia per sé che per altri. Anche quando non sembra proprio esserci alcun vantaggio per il paziente dal suo sintomo, comunque questo gli consente di avere una qualche forma di controllo e potere sul contesto. Il pensiero “Se solo io non avessi questo disturbo, tutto sarebbe ok” va quindi messo in discussione, perché le cose non sono così semplici e abbandonare il sintomo avrà dei costi a volte insostenibili, se non si chiariscono le dinamiche che lo mantengono. Occorre sempre chiedersi e capire “A che cosa serve questo sintomo? Che utilità ha? A quale bisogni di chi risponde? Cosa si dicono i membri del sistema, tramite questo sintomo?”.
Questo è il punto più difficile da comprendere, quello meno intuitivo, ma è essenziale anche ai fini della terapia. Se non si tiene conto del significato relazionale di un sintomo, intanto non è possibile “curarlo”, o meglio, sostituirlo con delle modalità più sane e adattive. Se il paziente in terapia comincia a modificare qualcosa, inevitabilmente il sistema risponderà opponendo resistenza, e questo deve essere tenuto sempre presente, per prevenirne le conseguenze, ovvero, spesso, un peggioramento del sintomo in modo che nulla cambi nel sistema. Secondariamente, limitarsi ad eliminare il sintomo del singolo sarà inutile se non addirittura controproducente, se non si rendono consapevoli le dinamiche che lo mantengono. Il minimo che possa accadere è che venga sostituito a breve da un altro sintomo, che permetterà di mantenere inalterate le dinamiche relazionali disfunzionali sottostanti.
Dott.ssa Lucia Montesi Psicologa Psicoterapeuta
Piane di Camerata Picena (AN)
Montecosaro Scalo (MC)
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