«Glielo dica lei, dottoressa, che il gruppo deve essere unito, che non devono esserci questi conflitti!», «Nel gruppo dovremmo essere tutti amici, ma non riusciamo a creare questa armonia!», «Glielo spieghi lei, che siamo tutti uguali e che nessuno deve primeggiare!». Quando mi chiamano per occuparmi della formazione o supervisione di gruppi e organizzazioni, mi rivolgono quasi sempre queste richieste. Succede soprattutto quando si tratta di organizzazioni di volontariato: specialmente quando hanno anche un’impronta religiosa, la preoccupazione per il clima di armonia e per la coesione del gruppo è massima. L’intento di migliorare la collaborazione in un gruppo è certamente lodevole, d’altra parte è anche necessario chiarire una premessa: alcuni fenomeni legati al conflitto, al dissenso, alle lotte di potere sono parte costitutiva di ogni gruppo e in certa misura ineliminabili; tendiamo a considerarli negativi e a reprimerli, ma hanno anche una funzione utile e anzi necessaria, evolutiva per il gruppo.
In ogni gruppo di lavoro (ovvero un gruppo che si riunisce in vista di un obiettivo e non, ad esempio, un gruppo di semplici amici che stanno insieme) esistono uno scopo da realizzare, delle regole, dei ruoli, una gerarchia. Esiste sempre una gerarchia di potere, che sia formale ed esplicita (con delle cariche assegnate) o più informale e non codificata. Si tratta dello “status” di ogni membro, ovvero la sua quantità di potere e prestigio in quel gruppo, intesi come capacità di influenzare gli altri e come riconoscimento di questa capacità. Così, tutti possiamo osservare che in un gruppo ci sono persone a cui basta aprire bocca per avere immediatamente sèguito e l’appoggio della maggioranza, e altre il cui intervento viene generalmente ignorato e cade nel vuoto. E a volte non c’è corrispondenza con le cariche ufficiali: può accadere che il capo abbia uno scarso consenso, e che sia invece un altro membro del gruppo il leader reale in grado di influenzare gli altri e guidarli. Lo status dipende da caratteristiche individuali (carisma, competenza, empatia, autorevolezza) e dalla situazione contingente del gruppo. Una gerarchia di questo tipo è utile a coordinare il gruppo e a diminuire il caos, ma si presta a gelosie, invidie, lotte per conquistare uno status superiore, che sia ufficiale o meno.
In ogni gruppo esistono anche dei ruoli: la funzione svolta, la parte assegnata a ciascuno. Esistono ruoli formali che corrispondono agli specifici compiti di quel gruppo, e altri informali, dei copioni che si ritrovano in qualsiasi gruppo. Così c’è sempre un leader, e c’è sempre anche un controleader che mira a prenderne il posto. Ed è inutile eliminarlo: se ne formerebbe subito un altro! Perché è un prodotto della dinamica del gruppo, indipendente dalle caratteristiche personali dei membri. Il leader può essere bravissimo, perfetto, avere il consenso quasi totale, ma ciò non impedirà che si formi un controleader, funzione del gruppo utile ad apportare il confronto e il cambiamento.
Allo stesso tempo, ci sono in ogni gruppo persone che tendono ad assumere ruoli “orientati al compito”: sono quelle che organizzano, stimolano, fanno proposte, chiedono opinioni, per realizzare al meglio l’obiettivo del gruppo. Altre sono più inclini ad assumere ruoli “convergenti”: sono quelle che si occupano delle relazioni tra i membri, si danno da fare per mantenere un clima di armonia, incoraggiano e sostengono gli altri, mediano i conflitti, facilitano la comunicazione. Poi ci sono sempre alcuni che assumono ruoli “divergenti” e che sono i portavoce del dissenso: quelli che criticano, fanno opposizione, ostracismo, che cercano di imporsi anche aggressivamente oppure frenano il lavoro del gruppo con un atteggiamento passivo, quelli che si oppongono alle regole stabilite e non le rispettano. Finchè non minacciano l’intera organizzazione, vengono tollerati. Per quanto sgradevoli, sono in realtà necessari perché garantiscono la possibilità del pensiero diverso, del cambiamento. La coesione del gruppo è un fattore positivo, ma se troppo alta distorce i processi decisionali, limita le idee, le soluzioni, la creatività. Perciò il gruppo stesso si autoorganizza per garantire l’esistenza di una parte “divergente” che assolva a questa importante funzione.
Anche il conflitto di per sé non è un male da evitare. Lo è se è distruttivo, basato sulla competizone, su attacchi personali in cui uno cerca di vincere sull’altro perdendo di vista i contenuti su cui si discute. Il conflitto costruttivo è invece sano, il disaccordo è naturale in un gruppo e utile, se gestito attraverso l’ascolto, la cooperazione, se resta centrato sui contenuti senza attaccare la relazione con l’altro.
Dott.ssa Lucia Montesi
Psicologa Psicoterapeuta
Piane di Camerata Picena (AN)
Tel. 339.5428950