“Amo i miei figli, ma se tornassi indietro, non li rifarei”, “Amo i miei figli, ma è così pesante fare la madre, non mi piace”, “Amo i miei figli, ma se devo essere sincera, ero più felice quando non ero madre”. È il pensiero di tante donne, ma pochissime riescono a confessarlo, a sé stesse e ancora di più ad altri, perché si sentono dei mostri, e in effetti è così che la maggior parte della gente le considera.
Esiste anche un “Movimento delle madri pentite” di cui fanno parte donne che, pur amando i propri figli, ammettono di non amare la condizione dell’essere madre, e che, inizialmente atterrite dalla convinzione di essere le sole a provare questi sentimenti, trovano sollievo nello scoprire di essere accolte e comprese da altre donne. Queste donne vivono la maternità con frustrazione, con la sensazione che la loro vita sia finita, che non ci sia spazio per altri progetti di vita. Oppure semplicemente non provano quel trasporto travolgente che credevano avrebbero provato, si sentono inadeguate di fronte alle esigenze dei loro piccoli e non percepiscono quel famoso “istinto materno che ti guiderà”, avvertono un enorme scarto tra la maternità immaginata e quella reale, si rendono conto che anche senza figli la vita avrebbe avuto ugualmente senso, provano noia e tristezza che non si aspettavano di provare.
Le dichiarazioni di queste donne suscitano critiche spesso feroci, sdegno, rigetto violento anche nelle persone di mentalità solitamente più aperta. Ogni volta che mi è capitato di affrontare questo argomento, io stessa sono stata sommersa da critiche, attacchi e manifestazioni di disappunto, persino da colleghe. Pur sapendo bene l’effetto che produce, continuo a proporlo perché lo ritengo necessario, perché nel mio lavoro incontro queste donne pentite e conosco la loro sofferenza, perché è solo parlandone e accettando che questo possa accadere, che si può anche fare in modo che non si concretizzino i timori più grandi: non riuscire ad amare i propri figli, non essere in grado di dare loro ciò di cui hanno bisogno, fare loro del male. Pur essendo una condizione che riguarda anche i padri, scelgo di approfondire in questa sede solo la situazione femminile, perché molto più forte è lo stigma sociale che produce.
Si tratta di un tabù così forte da essere quasi impronunciabile e impensabile, perché sfida lo stereotipo più radicato: l’idea che essere madri sia la cosa più bella del mondo, che la maternità sia il necessario completamento dell’identità femminile, che l’amore per i figli sia, e debba essere, superiore a qualsiasi altra cosa. È così intenso il rifiuto di altre possibilità diverse da questa, che lo stesso sentire di queste donne viene messo in dubbio: “Dice così, ma in realtà non lo pensa, perché non è possibile.” Vengono addotte giustificazioni: “Dice così perché è troppo giovane/perché è troppo vecchia/ perché non ha una famiglia serena/perché la società non dà aiuti/ perché ha difficoltà economiche/perché è solo uno sfogo di un momento/perché in realtà è depressa/ perché ha avuto una storia difficile alle spalle/perché il bambino ha dei problemi, ecc, rifiutando a priori la possibilità che sia la condizione di madre in sé ad essere vissuta negativamente. E se il decidere di non avere figli è spesso oggetto di critiche o quantomeno perplessità, il pentirsi dopo averli avuti è inaccettabile, perché c’è la convinzione che “una volta che sarai madre, vedrai che proverai un amore che supererà tutto”.
In realtà, molte persone sono figlie di madri pentite che non lo hanno mai detto apertamente, neanche a sé stesse, e tuttavia questi figli lo sanno, lo sentono, lo dicono: «Mia madre non era proprio tagliata per fare la madre, e si capiva che, potendo tornare indietro, non l’avrebbe rifatto», «So che mia madre era diversa prima che io e mio fratello nascessimo…credo si sia pentita di averci messo al mondo». Qualcosa che esiste, quindi, che viene provato in prima persona e che viene percepito dagli altri, ma che non può essere detto. E sono proprio il non essere detto e il dover essere negato, a renderlo pericoloso, distruttivo e fuori controllo. Mentre ciò che può essere detto, diventa conoscibile, spiegabile, comprensibile, gestibile, compensabile, evitando che produca danno.
In alcuni casi si tratta di un pentimento sopraggiunto dopo una scelta consapevole e desiderata di maternità, in molti altri frutto di un cedimento al desiderio o alle pressione di altri, che fossero i partner, altri familiari o la società stessa che continua a vedere nella maternità una tappa indispensabile della realizzazione femminile. Proprio la visione idealizzata della maternità, la visione romantica che nega gli aspetti ambivalenti, conflittuali e aggressivi che ne fanno normalmente parte, da una lato può spingere a forzarsi nella scelta di diventare madre, dall’altro fa percepire ancora di più, dopo, le difficoltà e il carico dell’essere madre, sentiti come qualcosa di anomalo, che non si dovrebbe provare, a cui non si era preparate, che non si può condividere con altre. Per questo, dare voce a queste donne pentite permette di ammorbidire gli stereotipi sulla maternità ancora rigidi, di avere una visione più realistica, sfaccettata, complessa dell’essere madre.
Se si potesse dare voce al fatto che essere madri non renda necessariamente felici, probabilmente già questo renderebbe la condizione di queste mamme pentite meno dolorosa, e certamente allevierebbe il gigantesco senso di colpa che non apporta nessuna utilità. Parlare onestamente degli aspetti negativi dell’essere madre e smetterne di darne una visione idealizzata, può aiutare a scegliere con più consapevolezza e ad affrontare le difficoltà senza sentirsi sbagliate, vivendo con più serenità la condizione di madre.
Dott.ssa Lucia Montesi Psicologa Psicoterapeuta
Piane di Camerata Picena (AN)
Montecosaro Scalo (MC)
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