Quando si pensa alla psicoterapia, l’immagine più immediata che viene alla mente è quella di uno spazio in cui il paziente possa portare il suo vissuto emotivo, esprimere emozioni e sentimenti, comprendere meglio ciò che pensa e prova, lavorare sul proprio mondo interiore. Si pensa insomma, automaticamente, al mondo emotivo del paziente che chiede aiuto. Ma cosa accade dall’altra parte? Cosa accade nello psicoterapeuta, nel suo mondo interno? Cosa prova uno psicoterapeuta mentre si rapporta con i suoi pazienti? Tutta questa parte che resta più in ombra ha un ruolo essenziale nella terapia e la influenza grandemente, sia in positivo che in negativo.
Durante una seduta di psicoterapia, nella mente del terapeuta circolano continuamente pensieri, intuizioni, ipotesi, emozioni, sentimenti. Questo materiale può avere origini diverse e il terapeuta deve costantemente essere consapevole della sua provenienza, per poi utilizzarlo al meglio. Vediamo le principali aree a cui si possono attribuire i contenuti interni dello psicoterapeuta in seduta.
-La psicoterapia è in primo luogo una relazione tra due persone, pertanto emozioni e sentimenti hanno un ruolo di primo piano. Tutta la gamma delle emozioni e dei sentimenti che normalmente appartiene a una relazione tra esseri umani, può presentarsi anche nella relazione terapeutica. Ciò che fa la differenza, è che nella relazione terapeutica diventa l’oggetto stesso del rapporto, il materiale che viene approfondito. Questo è vero certamente per il materiale emotivo del paziente, ma in qualche misura anche per quello del terapeuta. Il terapeuta infatti può a volte decidere di esplicitare ciò che prova se la rivelazione può essere utile al paziente, ma in ogni caso deve essere sempre consapevole di ciò che prova e deve continuamente monitorarlo, comprendere da dove derivi, gestirlo, decidere cosa farne nell’interesse del paziente. In particolare, non può reagire ai comportamenti del paziente come farebbe normalmente con altre persone al di fuori della psicoterapia, ma deve essere in grado di gestire e usare ciò che il paziente suscita in sé per favorire l’autoconoscenza del paziente.
-Le reazioni emotive del terapeuta, come per ogni altro individuo, sono influenzate dalla sua personalità, i suoi valori, i suoi ideali, la sua storia personale e familiare, la sua formazione, e da numerosi altri fattori che attengono alla sua vita. Il terapeuta deve esserne consapevole ed evitare che interferiscano nella relazione con il paziente.
-Controtransfert. Il concetto è difficilmente riassumibile in poche righe, ma possiamo definirlo come l’insieme delle reazioni che si attivano nel terapeuta in risposta al transfert del paziente. Anche il transfert è un concetto complesso, ma in breve possiamo definirlo come la tendenza del paziente a rivivere e riprodurre nella relazione con il terapeuta le stesse dinamiche che ha vissuto e formato nei suoi rapporti significativi del passato, e in particolare nei rapporti con i suoi genitori. Transfert e controtransfert avvengono in ogni relazione, ma nella relazione terapeutica trovano le condizioni ideali per manifestarsi e diventano uno strumento di conoscenza e di cambiamento. Il terapeuta deve far attenzione a distinguere il proprio controtransfert da altro. La comprensione di ciò che accade è resa ulteriormente difficile dal fatto che anche il terapeuta, come tutti gli esseri umani, ha il suo transfert verso il paziente e di questo deve essere consapevole.
-Empatia. Una parte delle reazioni emotive del terapeuta dipende dall’empatia, ovvero la sua capacità di mettersi nei panni del paziente, di percepirne pensieri e stati d’animo. L’empatia ha una componente cognitiva che consiste nel capire cosa l’altro sta pensando e provando, e una affettiva che consiste nel sentire in qualche misura le stesse emozioni dell’altro. Una giusta dose di empatia è necessaria nel rapporto terapeutico. D’altra parte, un’empatia eccessiva diventa disfunzionale perché fa assorbire tutte le emozioni dell’altro senza filtri, sovrastando e paralizzando il terapeuta, portandolo alla “stanchezza da compassione” o al burn-out. Perciò lo psicoterapeuta deve costantemente monitorare il proprio grado di coinvolgimento emotivo ed empatia e riequilibrarlo per poter svolgere il suo lavoro.
-Tipo di psicopatologia e gravità dei sintomi del paziente. Una parte dei sentimenti e delle reazioni che sperimenta lo psicoterapeuta deriva dagli schemi relazionali del paziente e dalla sua psicopatologia, soprattutto quando si tratta di disturbi di personalità (studi di Betan et al, 2005; Colli et al., 2014; Rossberg et al.,2010; Lingiardi et al., 2015.) I disturbi di personalità del cluster A (disturbo paranoide, schizoide e schizotipico) tendono a suscitare nei terapeuti risposte critiche e di inadeguatezza, i disturbi del cluster B (disturbo antisociale, borderline, istrionico, narcisistico) risposte di impotenza e di ostilità, i disturbi di cluster C (disturbo evitante, dipendente, ossessivo-compulsivo) riposte di protezione e ipercoinvolgimento. A una maggiore gravità dei sintomi, corrispondono più intense reazioni di paura, apprensione, inadeguatezza, rabbia, impotenza, rifiuto nel terapeuta. Occorre considerare che anche la risposta del terapeuta a sua volta influenza quella del paziente e che l’interazione è circolare, entrambi si influenzano reciprocamente concorrendo all’effetto finale.
-Risonanze su aree personali del terapeuta. Ogni terapeuta, come ogni altra persona, ha delle aree di sé più vulnerabili. Può trattarsi di eventi di vita del passato, di dinamiche della sua famiglia di origine, di problemi attuali con cui si sta confrontando o di qualunque altro aspetto particolarmente coinvolgente o emotivamente significativo. Può accadere che l’incontro con un paziente e con il suo specifico problema vada a rievocare e sollecitare una o più di queste aree del terapeuta. È necessario che i terapeuti elaborino le proprie problematiche personali con un lavoro su di sé, in modo che non interferiscano con la relazione terapeutica. D’altra parte, anche quando sia avvenuta una buona elaborazione, alcune tematiche sono comunque riattivate dall’incontro col paziente: è un po’ come un campanello che ogni volta suona e ci segnala che dobbiamo fare particolarmente attenzione.
-Bisogni del terapeuta. Ad esempio, un terapeuta con aspetti narcisistici può avere bisogno di trarre gratificazione e conferma dalla psicoterapia e provare frustrazione e rabbia se il paziente non “migliora come dovrebbe” e non gli permette di alimentare la propria autostima con i risultati raggiunti. Questo si riverbera negativamente sul paziente, che ha su di sé la pressione a stare bene in fretta, il senso di colpa se non riesce a farlo, la percezione di non essere accettato e accolto, la percezione di essere usato per gratificare il terapeuta. Oppure, un bisogno del terapeuta di evitare il conflitto può indurlo ad avere paura dell’ostilità del paziente e della sua disapprovazione e portarlo a non fare interventi scomodi per non indispettire il paziente, con il risultato che il paziente non è aiutato a confrontarsi con aspetti disfunzionali di sé.
-Difese del terapeuta. Se il terapeuta ha in sé aree problematiche che ha difficoltà ad affrontare, potrebbe colludere con il paziente nell’evitare di approfondire vissuti corrispondenti del paziente, escludendo quelle tematiche dalla terapia. Questo non significa che il terapeuta non debba avere aree di sofferenza: il problema nasce quando il terapeuta cerca di evitare il contatto con il proprio dolore, elicitato da una sofferenza analoga del paziente. Di solito i pazienti fanno fatica ad entrare dentro ciò che procura loro dolore: se anche il terapeuta sfugge il confronto con il dolore, si rischia lo stallo della terapia.
Dott.ssa Lucia Montesi Psicologa Psicoterapeuta
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