La competitività può essere definita come la capacità degli esseri umani di affrontare degli avversari, o dei concorrenti, nell’ambito in cui si sta agendo. La competizione ha a che fare con la gara, la lotta, il misurarsi con qualcuno o qualcosa per ottenere un primato. La competitività in psicologia non ha un significato univoco, può avere un’accezione sia positiva che negativa e può riguardare sia il confronto con gli altri che il rapporto con sé stessi.
Evitare la competizione è impossibile, perché essa permea moltissimi ambiti della nostra vita. La scuola, che per tanti anni occupa la maggior parte del tempo di bambini e ragazzi, è in gran parte incentrata sulla competizione e sui concetti di risultato, successo o fallimento, prestazione, profitto, valutazione. Nel mondo del lavoro, per poter avere un impiego occorre avere dei titoli e superare delle selezioni, vincere concorsi, essere scelti tra più candidati. Nello sport agonistico la competizione si manifesta nella sua forma più evidente, ma anche quando non c’è agonismo, e non soltanto nello sport, molte persone provano desiderio e piacere di primeggiare, di vincere, di risultare migliori rispetto ad altre. E anche le persone che dicono di sé di non essere affatto competitive, si trovano per forza a dover vivere e gestire delle situazioni di competizione per ottenere qualcosa. Inoltre l’acquisizione o meno di un traguardo ha di solito in qualche misura un impatto emotivo su di noi, suscitando emozioni di gioia, soddisfazione o al contrario tristezza, sfiducia e demoralizzazione: necessariamente, dalla competizione usciranno uno che ottiene un obiettivo, e un altro che inevitabilmente fallisce nell’ottenerlo.
Il comportamento competitivo è necessario in natura, in quanto permette di procurare a sé e al proprio gruppo le risorse per vivere, che si tratti di cibo, di una posizione di lavoro o di un partner. La competizione induce anche ad attivarsi per evitare una minaccia di perdita delle proprie risorse. Pertanto la competizione è stata favorita dalla selezione naturale, in quanto garantisce maggiori probabilità di sopravvivenza. Una sana competizione può favorire la motivazione e la prestazione. Competizione, cooperazione e comportamento prosociale sono le tre modalità interattive con cui bambini e adolescenti fanno normalmente fronte ai compiti di sviluppo. La competizione in questo caso è considerata positiva se ciò con cui si compete, l’ “avversario”, è rappresentato dalla realtà esterna con i limiti che pone, oppure da sé stessi: in questo senso la competizione mira all’affermazione di sé e delle proprie capacità. Viene invece considerata negativa se si compete per essere più di un altro e se assume forme aggressive e distruttive. L’altro non dovrebbe essere il nemico da superare, ma piuttosto il pretesto per dare il meglio di sé, o la pietra di paragone per conoscere meglio sé stessi, i propri limiti e migliorarsi.
La competitività è un tratto della personalità complesso che comprende in sé componenti cognitive ed emotive: una certa quota di aggressività, bisogno di autoaffermazione, bisogno di successo e realizzazione, bisogno di possesso, rispondenza alle attese del gruppo, obbedienza all’autorità, analisi del rapporto tra costi e benefici. Le persone competitive tendono a voler primeggiare, a cercare situazioni in cui mettersi alla prova, a porsi degli obiettivi, a volersi migliorare. Tendono ad essere ambiziose, orientate al successo e alla ricerca di novità, determinate e tenaci nel portare a termine ciò che si prefissano e a cui dedicano molto tempo ed energie. Le persone che vivono positivamente la competizione la percepiscono come uno stimolo a continuare a dare il meglio, a perseverare, a definire e perseguire obiettivi. Una moderata competitività rappresenta anche una sublimazione dell’aggressività perché permette di esprimere gli impulsi aggressivi in una cornice definita da regole.
In certi casi, la competitività diventa un problema perché induce a vivere come un dramma e con un esito depressivo i fallimenti, a vivere in una condizione di ansia costante e di ipervigilanza perché qualunque occasione diventa una competizione, a provare rabbia e frustrazione se non vengono raggiunti gli obiettivi, a provare invidia disfunzionale e rancore. In questi casi la competitività non favorisce la prestazione, ma la peggiora. Quando la competizione non è più uno strumento di crescita ma diventa aggressiva, può comportare tensione con gli altri, conflitti e difficoltà relazionali. Le persone troppo competitive possono deteriorare e rendere stressante il clima degli ambienti che frequentano, spingendo anche gli altri alla competizione; possono cercare di dominare e manipolare gli altri o di appropriarsi di risultati in modo scorretto, calpestando i diritti degli altri. Le persone aggressivo competitive possono avere tratti psicopatici, narcisistici e antisociali o arrivare a presentare un più pervasivo disturbo della personalità e in questi casi non sono capaci di empatia e cooperazione, agiscono solo per il proprio tornaconto e possono ricorrere alla menzogna e all’abuso pur di ottenere ciò che vogliono.
Cosa spinge ad essere particolarmente competitivi? Dietro la spinta a competere si può nascondere un bisogno di essere riconosciuti e amati attraverso il raggiungimento di un risultato. Secondo la prospettiva psicoanalitica, possono celarsi sentimenti inconsci di inferiorità che l’individuo cerca di compensare raggiungendo dei risultati esteriori. La competizione può essere anche con sé stessi e associarsi a uno scarso riconoscimento di sé e delle proprie qualità, può spingere ad alzare sempre più l’asticella senza mai godersi i successi. La poca stima di sé porta anche a focalizzarsi sugli altri che sono visti sempre come migliori, incrementando la competizione. Primeggiare sempre è anche un modo per non apparire mancanti o non all’altezza, deboli o fragili.
E chi non è affatto competitivo? Chi invece rifugge la competizione, rischia di tirarsi fuori dai giochi e non mettersi per niente alla prova, oppure soffre quando realizza qualcosa, oppure fa in modo di non realizzare nulla. Chi evita del tutto la competizione può a volte assumere un atteggiamento vittimistico con cui copre le proprie presunte difficoltà, senza arrivare a sviluppare una visione lucida di sé mettendosi alla prova.
Dott.ssa Lucia Montesi Psicologa Psicoterapeuta
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