“Stai esagerando”, “Sono solo tue fissazioni”, “Non devi essere triste”, “Sicuramente hai frainteso”: a tutti sarà capitato di sentirsi dire o di pronunciare espressioni simili. Sono tutti esempi di invalidazione emotiva, ovvero l’atto di respingere o rifiutare pensieri e sentimenti di qualcun altro. L’invalidazione può concretizzarsi nell’ ignorare, minimizzare, accusare di esagerare, punire il soggetto per quello che prova o che pensa. Invalidare significa negare la verità di ciò che la persona percepisce (“Non è come dici”, “Ti sbagli”), attribuire i suoi stati interni a qualche suo problema (“Sei tu che sei ipersensibile”, “Te la prendi per nulla!”, “Sono solo tue paranoie”) o attribuirle ciò che non pensa e non prova (“Tu in realtà non intendevi dire quello che hai detto”, “Tu lo hai fatto apposta!”, “Non lo ammetti ma io so che sei arrabbiato”, o al contrario, “Dici che sei arrabbiato ma io so che non è così”), o non accettare e valorizzare i suoi gusti o le sue attitudini (“Che vuoi capirne, tu!”, “Sei troppo immaturo per scegliere”, “Ti piacciono solo passatempi stupidi”).
Anche dire “Non ci pensare” o cambiare argomento quando qualcuno parla di un suo problema, sono esempi di invalidazione. Spesso si invalida in buona fede, pensando di confortare, di tirare su il morale parlando d’altro o sdrammatizzando, ma il risultato non è quello sperato: quasi sempre, l’altro si sentirà non ascoltato, non compreso, solo, irritato, in colpa. A volte si invalida senza rendersene conto, altre volte è fatto intenzionalmente pensando rechi beneficio all’altro, oppure con lo scopo di manipolarlo.
La psicologa Marsha M. Linehan, tra i maggiori esperti di disturbo borderline, identifica nell’ambiente invalidante una condizione di rischio per lo sviluppo di questo grave disturbo della personalità. In un ambiente invalidante, quando un soggetto esprime i suoi stati interni, che siano pensieri, opinioni, sensazioni, emozioni, sentimenti, non viene compreso e riconosciuto, ma riceve delle risposte inappropriate. L’invalidazione si rivolge soprattutto agli stati interni negativi, che vengono mal tollerati e repressi, per favorire un atteggiamento mentale sempre positivo, secondo il principio che “volere è potere”, che tutto dipende dalla propria forza di volontà, che i problemi vanno lasciati velocemente alle spalle e se uno non ci riesce, è perché non si sforza abbastanza (“Inutile che piangi, non serve a niente!”, “Datti da fare, basta lagnarsi”, “Su, non è così grave”, “Tutti hanno problemi e li affrontano, sei tu che non ci metti abbastanza impegno”, “Controllati e non fare tutte queste scene”). Esprimere stati interni normali e legittimi come paura, tristezza, sconforto, disperazione, rabbia non è possibile in un ambiente invalidante, che reagisce con la critica e la disapprovazione e tenta di modificare forzatamente il soggetto “deviante”.
Per un bambino, crescere in un ambiente invalidante è patogeno, tanto più quanto più vi sia già una vulnerabilità di base, dovuta ad ulteriori fattori di rischio. Il bambino non può imparare a riconoscere i suoi stati interni, non ha modo di dare un nome alle emozioni che prova e quindi di imparare anche a regolarle; non sa, ad esempio, come poter gestire la tristezza, o come calmarsi in un momento di rabbia, o come poter esprimere le sue necessità: deve reprimere e basta. Il bambino è spinto a dubitare continuamente di sé stesso e ad autoinvalidare quello che pensa e che sente e ciò è estremamente confondente, tanto che finirà per appellarsi sempre agli altri per sapere come interpretare la realtà, che opinioni avere, cosa “è giusto” provare. Si pongono così le basi per un disturbo dipendente di personalità, nel migliore dei casi, o per un disturbo borderline, in cui l’identità stessa è confusa, la persona non sa chi è e attivamente reprime l’emergere della sua autenticità, dei suoi desideri, delle sue opinioni. Il disturbo borderline è caratterizzato anche da impulsività e da reazioni emotive e comportamentali estreme, nel tentativo di suscitare finalmente attenzione e di avere una risposta ai propri bisogni.
Nella vita quotidiana a tutti capita a volte di essere invalidanti, ma dovremmo cercare di esserne consapevoli e di imparare a comunicare in modo diverso, più funzionale. Validare significa che consideriamo comprensibile e normale ciò che l’altro pensa e prova, che lo riteniamo sensato, che non pensiamo che abbia qualcosa che non va per il fatto di avere quei pensieri o quelle emozioni. Questo non implica che li condividiamo o che siamo d’accordo, ma semplicemente che ne prendiamo atto. Ad esempio, di fronte a un bambino arrabbiato perché vuole un gioco che non può avere, si può essere validanti senza dover accondiscendere usando una frase come: “Capisco che ora sei arrabbiato perché quel gioco ti piace tanto e vorresti tanto averlo, ma purtroppo ora non possiamo comprarlo”. Anche nei confronti di noi stessi dovremmo imparare ad autovalidarci dicendoci “È normale che io provi questo”, “È legittimo che io ora sia arrabbiato”, “Non c’è niente di strano a sentirsi giù in un momento come questo”. Gli stati interni negativi sono parte naturale e normale del nostro equilibrio psichico e accettando di provarli ci risparmiamo ulteriore sofferenza.
Dott.ssa Lucia Montesi
Psicologa Psicoterapeuta Consulenza,
sostegno e psicoterapia online tramite videochiamata
Studi a Piane di Camerata Picena (AN) e
Montecosaro Scalo (MC)
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