Peggio che maneggiare la dinamite. Se c’è una parola “calda” che in questo momento ha il potere di incendiare gli animi è senza dubbio “mascherina”. Basta pronunciarla per scatenare reazioni imprevedibili e innescare scontri feroci tra i più prudenti e rispettosi delle regole e gli insofferenti che reclamano il diritto di liberarsene.
La mascherina non ha solo modificato il modo in cui ci relazioniamo e comunichiamo con gli altri, costringendoci a trovare altri modi per farci capire e per capire, ma è diventata essa stessa, nel modo in cui viene o non viene utilizzata, un ulteriore mezzo con cui la persona esprime sé stessa, il proprio modo di essere, le proprie convinzioni. Nel mio lavoro, è diventata anzi uno dei primi elementi attraverso cui un nuovo paziente indirettamente mi parla già un po’ di sé: la reazione quando informo che in studio dovremo indossarla, tra chi acconsente di buon grado, chi protesta, chi appare sollevato, chi tenta di contrattare, chi accetta e poi al momento dell’incontro si rifiuta di metterla, mi offre già qualche interessante informazione e spunto di riflessione.
Le polemiche e le diverse opinioni sulla necessità e sull’obbligo dell’uso della mascherina, la violazione delle norme da parte di molti, alimentano discussioni e anche dissapori non solo tra estranei, ma pure tra conoscenti, amici, familiari. Il solo fatto di trovarsi con un altro col volto scoperto in un luogo dove la mascherina è obbligatoria, può suscitare in uno ansia, in uno rabbia, in uno indifferenza, generando comunque dinamiche nuove che non avevamo mai sperimentato.
Mentre per altre popolazioni, come quelle asiatiche, indossare una mascherina su naso e bocca è un gesto familiare, abitudinario, sia per proteggere se stessi dall’inquinamento atmosferico, sia per proteggere gli altri in segno di rispetto per la collettività, in caso ad esempio si abbia il raffreddore, per noi la mascherina ha un’accezione puramente negativa, il suo utilizzo è percepito come una imposizione subìta o persino ingiusta, in ogni caso come una necessità dettata da un evento minaccioso. Indossare la mascherina e vedere che gli altri la indossano trasmette una sensazione di inquietudine, di una quotidianità stravolta e di una normalità perduta. Attiva in noi un segnale di allarme, infatti si è osservato che se due persone che indossano la mascherina si incontrano, tendono automaticamente a tenersi a una distanza di almeno un metro e mezzo.
Coprendo parte del volto, la mascherina ci priva di importanti elementi su cui abitualmente ci basiamo per riconoscere gli altri, per capire ciò che dicono e per intuire il loro stato emotivo. Capita di frequente di non riconoscere qualcuno (magari la persona che siamo soliti incontrare al bar la mattina) e di riuscire a identificarlo solo sentendolo parlare, e viceversa, di non essere riconosciuti dalla persona da cui invece ci aspettavamo il consueto saluto. Pur essendo consapevoli che questo è l’effetto comprensibile dell’avere il volto coperto, proviamo una sgradevole sensazione quando gli altri non ci riconoscono immediatamente e quando noi non riconosciamo con sicurezza gli altri. Il riconoscimento rapido dell’altro e la sua veloce categorizzazione come amico/nemico sono infatti una necessità arcaica che ci portiamo dietro da millenni, perchè funzionale alla sopravvivenza e all’identificazione veloce dei pericoli, perciò tutto quello che ostacola questo processo produce in noi un senso di disagio e uno sgradevole disorientamento.
Le persone sorde o con ipoacusia incontrano grosse difficoltà nella comprensione, sia perchè il volume della voce è attutito dalla mascherina, sia, soprattutto, perchè manca l’informazione dei movimenti labiali. Anche chi ha un udito normale si serve del labiale dell’altro per perfezionare la comprensione , perciò la presenza della mascherina è per tutti un elemento di disturbo.
Se il volto è in parte coperto, abbiamo più difficoltà a interpretare lo stato emotivo dell’altro, specialmente per quelle emozioni che hanno nella bocca e nel sorriso il mezzo espressivo più efficace, e facciamo molti più errori di valutazione. Diventa più difficile veicolare soprattutto gioia, accoglienza, benevolenza, accettazione, simpatia. Infatti gli operatori sanitari costretti ad essere completamente coperti durante l’assistenza ai malati covid, hanno utilizzato l’espediente di attaccare una propria foto sorridente alla tuta protettiva, per trasmettere un atteggiamento accogliente e rassicurante.
D’altra parte, stiamo imparando ad utilizzare altri canali per comunicare, sviluppando quelle abilità che sono proprie delle popolazioni che abitualmente coprono il volto (come le donne che indossano il niqab, velo che copre tutto il corpo e lascia scoperti solo gli occhi) o, senza dover andare troppo lontano, le abilità di tutti quegli operatori sanitari che lavorano ad esempio in oncoematologia, dove è necessario indossare sempre la mascherina per proteggere i pazienti fortemente defedati. Usiamo i gesti e i movimenti del corpo per enfatizzare ciò che diciamo e facilitarne la comprensione. Scopriamo che le sopracciglia non sono solo fastidiosa peluria da domare o elementi decorativi del volto, ma possono aiutarci ad esprimere più efficacemente sorpresa, perplessità, rabbia, disappunto, stupore. Usiamo più parole del solito, facciamo più domande. Ci guardiamo più a lungo negli occhi per cogliere la coloritura emotiva da dare alle parole. Osserviamo di più le mani. Dovendo fare uno sforzo, diventiamo più consapevoli di come comunichiamo, mentre prima lo facevamo automaticamente e forse in modo pure meno efficace. Ascoltiamo con più cura, facciamo più attenzione a cogliere ogni segnale dell’altro, dubitiamo più a lungo sull’interpretazione da dare e perciò siamo meno superficiali: una buona eredità da mantenere anche quando non dovremo più coprirci il volto.
Dott.ssa Lucia Montesi
Psicologa Psicoterapeuta
Piane di Camerata Picena (AN)
Montecosaro Scalo (MC)
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