Sono abituata, per il mio lavoro, a frequentare congressi, seminari e conferenze, sia come ascoltatrice che come relatrice. Convegni di psicologia, ma anche di medicina, occupandomi prevalentemente di persone con gravi patologie organiche. Generalmente, in questi incontri c’è una parte dedicata alla discussione dei casi clinici. Ogni relatore riporta una situazione di cui si è occupato, la diagnosi, le scelte terapeutiche, fino alla brillante conclusione. Ciascuno ovviamente sceglie quel caso che gli è riuscito meglio, quello in cui ha avuto l’intuizione più arguta o quello con la particolarità che possa incuriosire o sorprendere. Di norma ne risulta quindi una sfilata di successi e il tutto si conclude tra applausi e complimenti del pubblico. È a questo punto che io faccio ogni volta, sistematicamente, lo stesso pensiero: quanto mi piacerebbe che, invece, il titolo di ogni relazione fosse “Il mio peggior errore”, che – anzi -, un congresso intero fosse tutto dedicato agli errori! Quanto sarebbe più utile, quanto resterebbe più impresso nella mente di tutti, quanto più facilmente si trasmetterebbe un insegnamento a chi ascolta. E quanto aiuterebbe a cambiare la cultura con cui viviamo e interpretiamo l’errore: non un fallimento da vivere in solitudine, da occultare per non essere accusati e additati, ma un’esperienza su cui confrontarsi.
Un medico canadese, Brian Goldman, tiene delle brillanti e intense conferenze su questo tema. Le sue relazioni si aprono con il racconto dei suoi peggiori errori e colpiscono lo spettatore per l’onestà e la schiettezza. «Quando mai vi capita di sentire un medico che vi racconta uno dopo l’altro i suoi fallimenti?», osserva lo stesso Goldman. Non capita, perché il medico non deve sbagliare e basta, e questo lo porta a nascondersi e difendersi, fino a rimuovere l’errore, piuttosto che approfondirlo, cercarne le cause, riparare, ricordarlo per il futuro.
Questo non succede solo ai medici. Tutti viviamo l’errore come qualcosa di intrinsecamente sbagliato, negativo, da evitare in ogni modo. Per alcune persone molto perfezioniste l’errore non è solo sbagliato ma diventa inammissibile, insopportabile, catastrofico; fa pensare non semplicemente «Ho fatto una cosa sbagliata», ma «Io sono sbagliato». La paura di sbagliare se troppo intensa può bloccare le scelte, indurre a rinunce, provocare indecisione, ansia, sensi di colpa. Eppure non potremo che fallire, se pretendiamo di non sbagliare. È anzi proprio il contemplare sempre il possibile errore, che mette al riparo dal commetterne di molto gravi. Il paradosso è poi che proprio chi soffre di più per i propri errori, chi li considera gravissimi e si sente tremendamente in colpa per averli commessi, finirà per non scusarsi, per non ripararli, per non apprendere nulla da essi. Chi vive l’errore come tragico e irreparabile, infatti, cercherà di nasconderlo, anche a sé stesso, perché tanto non esiste soluzione, né assoluzione possibile. Finirà così per apparire agli altri indifferente, privo di scrupoli e insensibile, quando invece interiormente soffre intensamente per l’errore commesso.
Imparando a vedere gli errori come normali, ammissibili e sopportabili, diventiamo invece capaci di scusarci, di cercare una riparazione, di discuterne con altri, di capirne le cause e perciò la nostra parte di responsabilità e di assumercela, di farne esperienza preziosa per il futuro. Se sappiamo guardare ai nostri personali errori con realismo, con onestà ma anche comprensione, possiamo aiutare anche gli altri a vedere i propri e correggerli, senza né accusare o aggredire, né lasciar correre o giustificare, ma permettendo di riflettere sull’errore con un tono di sostegno e affetto.
Dott.ssa Lucia Montesi
Psicologa Psicoterapeuta
Piane di Camerata Picena (AN)
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