Quando ero una giovane studentessa di psicologia, trascorsi un periodo di tirocinio in un reparto di psichiatria. Cominciai nel periodo natalizio e ricordo perfettamente che il primo giorno, entrando, notai subito, in una nicchia nel muro del corridoio, un grosso presepe protetto da un vetro. “Chissà perché dietro quel brutto vetro, così squallido”, mi chiesi ingenuamente, e poi me ne dimenticai, presa dall’eccitazione di quella nuova esperienza. Tempo un quarto d’ora, e capisco il senso del vetro: una signora ricoverata, fino a quel momento abbandonata immobile su una sedia della sala, si alza di scatto, si dirige di gran carriera al presepe, si posiziona davanti con precisone millimetrica, prende la mira e sbam, una pedata micidiale sul vetro, e poi se ne torna a posto. E così a intervalli regolari, la maggior parte del tempo ferma in uno stato catatonico, e poi all’improvviso via, un’altra zampata al presepe.
Osservavo e intanto elaboravo ipotesi interpretative del fenomeno: perché prendersela proprio col presepe? Cosa rappresentava? Quale misterioso conflitto poteva celarsi dietro le violente mazzate a San Giuseppe? Pur studiando psicologia, non sapevo ancora quello che per gli psicologi è un fenomeno talmente noto da sembrarci quasi ovvio: il Natale è un periodo altamente stressante e critico per chi ha un disagio psicologico e di solito lo acuisce, inasprendo i sintomi. E non sono solo le persone con un disturbo psichico conclamato a risentirne: anche chi non ha una sofferenza psicologica particolarmente significativa, può vivere il periodo delle feste natalizie con un senso di malessere, di angoscia, di ansia, di tristezza. Magari non prende a calci il presepe, ma confessa che non vede l’ora che sia il 7 gennaio. È una sensazione molto comune, ma la maggior parte delle persone non lo sa e, se si accorge di provare emozioni sgradevoli al posto della gioia che abitualmente associamo al Natale, teme di avere qualcosa di strano, di anomalo. Per questo propongo di nuovo questo argomento, pur avendolo trattato anche lo scorso anno, perché molti non sanno che è normale sentirsi così. Non lo sapevo neanche io che, pure, studiavo psicologia.
La frase che sento pronunciare più spesso in questo periodo dai miei pazienti è «Dovrei essere felice, è Natale…perché invece ho questo malessere?». Ognuno crede di essere il solo a sentirsi così, mentre il resto del mondo sembra godersi la gioia del calore familiare, il piacere dello scambio dei doni, l’eccitazione dell’arrivo di un nuovo anno. Quando dico che in realtà sono in tanti a sentirsi malinconici, c’è un sospiro di sollievo: «Ah, davvero? Mi rincuora, pensavo di non essere normale!».
Del resto, sono molti i motivi che rendono il Natale una festa carica di significati ambivalenti e un evento a rischio di suscitare emozioni negative. «Tutte queste luci e musichette dovrebbero rallegrarmi invece stridono ancora di più col mio umore»: si percepisce una forzatura, un contrasto tra un ostentato clima di festa e spensieratezza e, dall’altra parte, la consapevolezza dei soliti problemi con cui fare i conti e delle preoccupazioni quotidiane. Alcuni hanno perso il lavoro, molti hanno difficoltà economiche; per chi ha perso una persona cara o ha vissuto una separazione, il Natale amplifica la mancanza, la solitudine, il desiderio struggente di chi non c’è più.
Chi si trova ad affrontare una malattia fa i conti con un Natale diverso: in ospedale lontano dai propri cari, oppure a casa ma con tante rinunce e rimpianti («Che dispiacere, non poter cucinare per i miei bambini», «Non posso invitare nessuno, ho i globuli bianchi bassissimi… che tristezza un Natale così»); chi ha un familiare malato si divide tra il tentativo di ritagliarsi una pausa di leggerezza e la preoccupazione e il senso di colpa. Chi vive rapporti familiari tesi prenderebbe a calci il televisore (come la signora col presepe…) quando trasmette quegli spot con le famigliole felici intorno al pandoro, vorrebbe sottrarsi a riunioni forzate con parenti sgraditi, o invece vive con ancora più dolore l’ostilità di persone care a cui vorrebbe riavvicinarsi. Anche chi non deve sopportare condizioni particolarmente gravi, può vivere con fastidio le frequentazioni forzate imposte da pranzi e cene, la corsa al regalo che “tocca fare”, o persino la sospensione dalla abituali attività e dal lavoro: «Senta, penserà che sono pazza, ma io non vedo l’ora che sia tutto finito e di tornarmene come sempre al lavoro!».
Dover fingere qualcosa che autenticamente non sentiamo acuisce ulteriormente il malessere. Meglio accettare le emozioni negative, sapendo che sono in parte inevitabili. Non c’è un modo giusto per vivere il Natale, ognuno dovrebbe ascoltarsi e scegliere quello che veramente desidera. Ci sono alcuni miei pazienti malati in modo gravissimo che si ritagliano coi denti i loro scampoli di Natale, magari non hanno la forza per stare in piedi ma si ostinano ad addobbare una meravigliosa tavola, perché gli piace, oppure sono ricoverati e si comprano il pigiama con gli abeti, perchè almeno qualcosa della festa vogliono poterlo avere. Altre persone preferiscono andarsene lontano, o stare da sole, alcune si danno da fare per chi ha bisogno, altri ancora stanno sul divano col cane, qualcuno fa regali per esprimere attenzione e amore, qualcuno non li fa perché per una volta sceglie di pensare solo per sé. Quello che conta, è non mettere un tappo sulle emozioni, non ricacciarle indietro, non soffocarle, perché anche se sono spiacevoli, ci parlano dei nostri bisogni.
Dott.ssa Lucia Montesi
Psicologa Psicoterapeuta
Piane di Camerata Picena (AN)
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