Domenica 15 marzo è andata in scena in tutta Italia la giornata contro i disturbi del comportamento alimentare. Un fine settimana a parlare dei problemi e soprattutto delle soluzioni da offrire a chi soffre di anoressia, bulimia eccetera. Anche ad Ancona, grazie all’impegno delle diverse associazioni che operano sul territorio, si sono svolti incontri e iniziative di sensibilizzazione al problema. La Regione si è impegnata ad una delibera entro il mese di marzo, quindi siamo ormai in attesa di vedere l’impegno nero su bianco. Nel frattempo torniamo ad occuparci del tema, stavolta con una intervista ad una delle persone più preparate e competenti in materia, che abbiamo la fortuna di avere all’opera nelle Marche: Giuliana Capannelli, Psicoterapeuta–Psicoanalista della scuola lacaniana, presidente del Centro Heta di Ancona e referente terapeutico del Progetto “Oltre…a riveder le stelle”.
Dottoressa, numeri in costante aumento: perchè?
«I sintomi alimentari sono in aumento nella nostra società come in aumento è in generale tutta l’attenzione che poniamo al cibo e al corpo. Ne sono un esempio eclatante le innumerevoli trasmissioni televisive di cucina; molto significativo anche il fatto che il tema dell’alimentazione sarà il tema dell’expo di Milano. In una società dove il cibo non è più fonte di sostentamento primario, dove tutto è alterato e non esiste più nemmeno la parvenza di naturalità, dove il cibo è un oggetto che deve “soddisfarci” prima ancora che nutrirci, non è strano pensare che sia proprio attorno a questo che possano focalizzarsi le problematiche delle persone. D’altra parte non possiamo non notare l’iper attenzione che viene costantemente rivolta al corpo e all’immagine prima ancora che ad altro. Questo è, se vogliamo, già un sintomo sociale e quindi non dobbiamo meravigliarci troppo se abbiamo a che fare con una sorta di epidemia che interessa tutti i ceti e le età e purtroppo sta interessando una popolazione sempre più giovane».
Anoressia e bulimia sono malattie solo al femminile?
«Gli essere umani, per quanto credano di avere un corpo proprio ed essere una identità, mancano sempre di qualcosa e non arrivano mai a completamento di sé stessi ma sono sempre “in costruzione”. Questa identità ce la costruiamo proprio attraverso l’immagine, e quindi attraverso l’altro, dato che l’immagine è ciò che più di ogni altra cosa è soggetta allo sguardo altrui e, di conseguenza, al suo giudizio. Le donne sono le più sensibili a questo giudizio e allo sguardo dell’altro sul proprio corpo e dunque sulla propria identità. Ma attualmente anche molti ragazzi si sono sensibilizzati su questo registro e hanno tra i sintomi possibili anche quelli legati al cibo, al corpo e al peso».
I disturbi del comportamento alimentare colpiscono prevalentemente in età adolescenziale, anche se purtroppo non mancano casi più precoci. Ma riguardano anche gli adulti, possono comparire ad ogni età?
«Si, purtroppo l’età non è più così definibile tanto da sentirsi “fuori pericolo” dopo l’adolescenza o in fasce di età non classicamente colpite. In realtà perché si manifesti un sintomo (ma questo non riguarda solo la questione alimentare), è necessario essere in un momento di particolare fragilità soggettiva o di destabilizzazione o, in generale, di cambiamento. Questo perché ogni sintomo viene ad essere prima ancora che un problema, innanzitutto una difesa, un tentativo di risposta a qualcosa che è accaduto nella vita della persona e che per lo più non viene riconosciuto come un problema ma che va a creare un terreno fertile per una eventuali crisi. E’ anche vero che la scelta di un sintomo si inserisce spesso in una rete di discorso personale e familiare che può essere molto significativo per il soggetto (un genitore o un familiare con lo stesso disturbo, una attenzione al cibo presente fin dall’infanzia, una tendenza ad utilizzare il cibo scaricare ansie o difficoltà, ecc.)».
Quali sono i motivi?
«Anche se tra i motivi scatenanti troviamo delle ripetizioni molto seriali (perdita affettiva importante, cambiamenti improvvisi o non contemplati, tradimento nell’ambito dell’amicizia, separazione da parte dei genitori, difficoltà di accettare la crescita nel periodo adolescenziale, ecc.), in realtà ciò che sta alla base di queste difficoltà non è visibile all’esterno e fa parte di una rete interna soggettiva che solo un percorso psichico approfondito può portare alla luce e permettere di modificare».
Come si prende coscienza del problema?
«Le manifestazioni visibili sono diverse: dal rifiuto del cibo, ad un’iperattenzione al proprio corpo, dalla dieta che non si ferma a quanto pattuito, ad un ritiro e tendenza all’isolamento dagli altri, dalla spinta verso un’attività fisica senza sosta, alla costanza del pensiero sul cibo e sul corpo che può rasentare l’ossessione. Questi segnali sono però sempre secondi a difficoltà che spesso partono da lontano e che a volte è molto difficile comprendere perché sono vissute in solitudine, a volte senza che neanche la persona stessa si renda conto di essere in crisi. Capita che non si riesca a chiedere aiuto (o perché si pensa di non meritarlo o perché si pensa di deludere l’altro, ecc.). Alcuni genitori mi dicono che non si erano accorti di nulla e, a posteriori si domandano: ma come abbiamo potuto non accorgerci? Come è stato possibile questo? In questo senso la sensazione che un genitore è spesso quella di una meteora che gli cade addosso, di un uragano che è arrivato di sorpresa. Poi si scopre che i segnali c’erano già, solo che non li vedevamo, non ci rendevamo conto. E’ poi vero che non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere e tante volte, per amore, per affetto, ma anche per paura, si arriva a negare l’evidenza».
Una volta emerso il problema, che fare?
«Sempre rivolgersi a centri specializzati sui DCA e non andare semplicemente da un terapeuta o da un medico “bravo”. Non sempre la persona che conosciamo o di cui abbiamo avuto indicazione è specializzato in queste patologie e bisogna conoscere a fondo il problema per poter intervenire. La figura primaria più indicata per un primo colloquio è lo psicologo (e non il nutrizionista come si pensa), ma l’equipe è normalmente multidisciplinare quindi sarà poi la persona individuata per una prima valutazione che accompagnerà il soggetto e la famiglia verso il percorso più indicato, considerando che non ci sono percorsi o protocolli standard ma che ogni caso va visto nel particolare della situazione e del momento».
Come si fa prevenzione?
«Questo è un argomento molto delicato, sia perché in questo campo si rischia di ottenere l’effetto contrario sia perché di suo la prevenzione, nel campo psi è un controsenso: come si previene il rischio di avere dei momenti di difficoltà e non sapere come affrontarli? Come si previene una spinta verso il controllo e il rifiuto che è incontrollabile? Certamente però il fatto di parlare nel giusto modo di questi disturbi permette di avere degli strumenti in più per affrontarli e per cogliere i segnali che senza conoscenza sfuggono e possono essere sottovalutati. La migliore prevenzione è comunque quella in cui si è promotori attivi di salute e non solo fruitori passivi di informazioni».
L’importanza della legge regionale in materia che anche la vostra associazione chiede.
«Le leggi servono per stabilire delle regole minime comunitarie e per poter rispondere alle esigenze di intervento e cura di una patologia che mette a rischio la vita delle persone. Una regolamentazione della situazione nelle Marche non solo è auspicabile ma è realmente indispensabile. Il problema è sempre come vengono fatte le leggi, che siano in grado di garantire una applicazione coerente e concreta, cosa che raramente purtroppo avviene. Per questo siamo molto vigili sulla faccenda e non trascuriamo questi passaggi attuali che sono nodali per non ritrovarci in futuro a doverci lamentare di quello che verrà legiferato con il solito detto del “si stava meglio quando si stava peggio”».
Matteo Belluti