Benessere

Perché lo psicologo non può avere come pazienti amici e familiari? Tutti i rischi di una conoscenza pregressa tra professionista e paziente

Molti pensano che rivolgersi a uno psicologo con cui ci sia già una conoscenza o un legame affettivo sia la soluzione ideale. In realtà ciò rende impossibile instaurare una sana ed efficace relazione di aiuto

Psicoterapia (Immmagine di repertorio da Adobe Stock)

«Vorrei venire in terapia da te, sarà più facile perché sai già tutto di me», «Puoi fare dei colloqui con mio figlio? Mi fido solo di te», «Vorrei che vedessi mia madre, lei da te verrebbe perché già ti conosciamo e si sentirebbe più a suo agio». Mi succede periodicamente che amici o conoscenti che frequento mi chiedano di poterli seguire in psicoterapia o di seguire i loro figli, partner, genitori. Si aspettano che, proprio in virtù del rapporto di amicizia o di conoscenza, io accolga volentieri la richiesta e restano stupiti, se non delusi, quando rispondo che non è possibile e che è anzi espressamente vietato dal nostro codice deontologico.

Lucia Montesi
La psicoterapeuta Lucia Montesi

L’articolo n. 28 del Codice deontologico degli psicologi italiani recita infatti che “lo psicologo evita commistioni tra il ruolo professionale e vita privata che possano interferire con l’attività professionale o comunque arrecare nocumento all’immagine sociale della professione. Costituisce grave violazione deontologica effettuare interventi diagnostici, di sostegno psicologico o di psicoterapia rivolti a persone con le quali ha intrattenuto o intrattiene relazioni significative di natura personale, in particolare di natura affettivo-sentimentale e/sessuale. Parimenti costituisce grave violazione deontologica instaurare le suddette relazioni nel corso del rapporto professionale”, pertanto non solo lo psicologo non può avere come paziente, ad esempio, un suo amico, ma non può neanche trasformare il rapporto terapeutico diventando amico del paziente e frequentandolo al di fuori della terapia, durante il trattamento. Se il divieto sussiste per lo psicologo, a maggior ragione si applica allo psicoterapeuta, ovvero il professionista specializzato in psicoterapia che si occupa espressamente della cura dei disturbi e del disagio psicologico.

Il codice deontologico fa riferimento a “relazioni significative di natura personale”, pertanto a rapporti in cui si presume ci sia una frequentazione e in cui vi sia un certo livello di confidenza e di intimità. Possiamo pensare a familiari, partner o ex partner, amici. Non si applica quando la conoscenza è superficiale e non confidenziale, tuttavia anche in questo caso occorre fare delle distinzioni e valutare caso per caso. Potrei non conoscere affatto il nuovo fidanzato o il cugino della mia amica, ad esempio, ma il fatto che comunque queste persone intrattengano una relazione stretta con la mia amica renderebbe problematico un eventuale rapporto terapeutico con loro.

Perché è così rischioso che psicologo e paziente abbiano tra loro un rapporto significativo preesistente, o lo intraprendano durante il rapporto professionale, tanto da doverlo espressamente vietare?

Per molte persone è difficile da immaginare, perché ritengono che, piuttosto, il fatto di conoscersi bene non possa che giovare al rapporto, facilitarlo, permettere di aprirsi di più senza timori, agevolare il professionista che già conosce la storia della persona e le sue caratteristiche. Pensano anche di poter ricevere il massimo in termini di attenzioni, disponibilità, professionalità da un esperto che è anche in qualche modo legato a loro affettivamente, e che non ci sia quindi soluzione migliore.  Al contrario, ciò che sembra un vantaggio è proprio ciò che rischia di inficiare il rapporto, di renderlo anzi impossibile, e il divieto rappresenta in primo luogo una tutela del paziente.

Vediamo alcuni dei motivi del divieto. Userò il termine “terapeuta” piuttosto che “psicologo” perché l’ambito della psicoterapia permette di evidenziare in modo più immediatamente comprensibile rischi e difficoltà:

-Se il terapeuta è emotivamente coinvolto con il paziente perché lo conosce o conosce la sua cerchia, rischia di non poter svolgere efficacemente il suo lavoro perché non riuscirebbe ad essere neutrale e lucido, ad esempio nei confronti di decisioni, scelte e comportamenti del paziente che lo toccherebbero in prima persona. Potrebbe sentirsi bloccato da conflitti di lealtà, spinto a prendere le parti di qualcuno, timoroso di ferire qualcuno a cui tiene.

-Il terapeuta  potrebbe non riuscire a reggere il carico della sofferenza del paziente, che gli arriverebbe amplificata dal legame affettivo esistente.

-Il terapeuta si troverebbe in difficoltà nel far notare a un amico o un familiare aspetti critici della sua personalità su cui è necessario lavorare, per paura di ferire l’altro. Il compito del terapeuta non è di dare consigli, come molti credono, ma di promuovere nel paziente autoconsapevolezza: un processo che a tratti può diventare anche molto scomodo e doloroso e sollevare aspetti poco piacevoli e non accettati dal paziente.

-Il terapeuta potrebbe venire a conoscenza di informazioni e segreti che coinvolgono conoscenti comuni, un materiale di difficile gestione.

-Sia il terapeuta che il paziente, se si conoscono, hanno già dei pre-giudizi formati nella frequentazione precedente, proprie opinioni personali sull’altro che ostacolerebbero la formazione del rapporto terapeutico.

Il paziente si aspetta che un terapeuta che conosce sia più disposto a “chiudere un occhio” e derogare a regole e divieti. La situazione che mi capita più frequentemente è quella del genitore che preme perché veda il figlio minorenne di nascosto dall’altro genitore, pur ribadendogli che è espressamente vietato effettuare una prestazione psicologica a un minore senza il consenso di entrambi i genitori. Oppure, l’amico del terapeuta che gli invia un proprio familiare potrebbe aspettarsi che il professionista deroghi all’obbligo del segreto professionale e lo aggiorni su “come vanno le cose”. Più in generale, avere familiarità con qualcuno induce più facilmente a percepirne meno l’autorevolezza e a metterne in discussione o tentare di contrattare indicazioni e regole.

-Se terapeuta e paziente si conoscono già, viene meno un elemento fondamentale della terapia: il dispiegamento e sviluppo progressivo della relazione transferale, ovvero il manifestarsi nel rapporto terapeutico degli schemi relazionali del paziente, che sono materiale prezioso di osservazione e intervento per rendere il paziente consapevole del suo modo di rapportarsi all’altro. Se tra i due esiste già un rapporto, si è già definita in precedenza una relazione transferale che resta attiva e non permette il lavoro terapeutico.

-Sia il terapeuta che il paziente, se hanno conoscenze in comune, possono temere che l’altro riferisca ad altri ciò che emerge in seduta. Il caso più ovvio è quella del ragazzo che si trattiene nel parlare con la psicologa amica di famiglia, perché teme che questa poi, malgrado l’obbligo del segreto professionale,  riporti tutto ai genitori, con cui magari si vede la settimana dopo per una cena.  Anche il terapeuta può esitare a fare un’osservazione o commento, immaginando che poi potrebbe essere riportato e avere effetti imprevedibili.  Entrambi possono poi trattenersi per il timore del giudizio dell’altro. Entrambi quindi non si sentirebbero liberi di esprimersi.

-Il rapporto terapeutico è asimmetrico e tutto focalizzato sul paziente, mentre la relazione amicale è basata sulla reciprocità. Nella relazione terapeutica, il paziente si svela, si mette a nudo, il terapeuta no. Il terapeuta viene a sapere moltissime cose del paziente, mentre il paziente non sa quasi nulla del terapeuta, e questo è funzionale alla terapia. Perciò avviare una terapia se c’è giù un rapporto rende difficile, se non impossibile, questo sano sbilanciamento, mentre iniziare a frequentarsi al di fuori come “amici” mentre è in corso una terapia crea una situazione imbarazzante per il divario tra la due posizioni. Per questo è auspicabile che anche dopo la fine di una terapia, terapeuta e paziente non diventino amici, perché è difficile che un rapporto così asimmetrico e basato su ruoli molto differenti possa trasformarsi in un rapporto autenticamente paritario. Sono due tipi di rapporto sostanzialmente inconciliabili.

-Il rapporto tra terapeuta e paziente è fortemente sbilanciato in termini di potere a favore del terapeuta e avviare una relazione sentimentale/sessuale con un proprio paziente può danneggiare gravemente quest’ultimo che non può distinguere tra un reale sentimento d’amore, emozioni e sentimenti diversi smossi dalla terapia e  la fascinazione/suggestione dovuta al ruolo del terapeuta. Sarebbe gravissimo se il terapeuta approfittasse di questa asimmetria e dell’effetto dovuto al suo ruolo per ottenere gratificazione affettiva/sessuale, con effetti potenzialmente devastanti sul paziente.

Dott.ssa Lucia Montesi Psicologa Psicoterapeuta
Consulenza, sostegno e psicoterapia prevalentemente online tramite videochiamata
Studi a Piane di Camerata Picena (AN) e
Montecosaro Scalo (MC)
Per appuntamento tel. 339.5428950