«Non si è neanche accorto della mia malattia, continua la sua vita come sempre», «A 15 anni, capirà, il suo unico interesse è uscire con le amiche o stare su quel maledetto telefono», «Non so cosa provi mio figlio, non parla, evita l’argomento», «Non capisce che ora che sto male deve darmi una mano in casa, ogni giorno deve farmi arrabbiare!»: sono le risposte delle persone malate che ascolto in ospedale, quando chiedo come i loro figli adolescenti stiano vivendo la situazione.
Una delle impressioni più frequenti, è che a questi ragazzi poco importi della malattia del genitore, anche quando si tratta di condizioni serie come un tumore. I genitori lamentano che appaiono indifferenti, anzi, a volte più aggressivi e sprezzanti del solito. Rimangono delusi se i figli reclamano i loro spazi, le loro uscite, i loro impegni con lo sport o altre attività, in un momento in cui vorrebbero la loro vicinanza o un maggior aiuto pratico in casa.
Molte ricerche hanno evidenziato che i genitori malati oncologici sottostimano sistematicamente il grado di informazione dei loro figli sulla loro malattia e il loro livello di disagio e di sofferenza. Non sanno che anche bambini molto piccoli spiano le conversazioni, le telefonate, vanno a leggere i certificati medici e hanno molte più notizie della malattia dei genitori di quanto loro credano. Gli adolescenti, proprio per le peculiarità legate alla loro particolare fase di sviluppo, traggono facilmente in inganno. La loro complessa condizione emotiva di fronte alla malattia di un genitore è difficilmente interpretabile perché ricca di ambivalenze e filtrata da massicci meccanismi di difesa.
Gli adolescenti hanno una comprensione della malattia pari a quella di un adulto, in termini cognitivi. Sono quindi in grado di capire le informazioni che i genitori danno loro, o quelle che carpiscono da altri o su Internet, se nessuno spiega loro cosa sta succedendo, illudendosi in questo modo di proteggerli dalla preoccupazione. D’altra parte, a fronte di una maturità cognitiva, hanno una condizione emotiva particolarmente delicata, nel passaggio dall’età infantile a quella adulta.
L’adolescente è spinto a rendersi indipendente dalla sua famiglia, a sperimentarsi fuori, ad allentare il legame con la famiglia, a mettere in atto comportamenti di opposizione e ribellione fisiologici, necessari per favorire il distacco dal caldo e protettivo contesto familiare, da cui altrimenti non si allontanerebbe mai per costruire la propria vita. La malattia di un genitore lo richiama indietro, a una maggiore presenza in famiglia, sia per il desiderio di stare accanto al genitore, sia per le richieste di maggiore responsabilità che possono provenire dagli altri membri della famiglia: «Invece di uscire, resta in casa a controllare se papà si sente male», «Dai anche tu una mano nelle faccende di casa, che mamma è stanca», «D’ora in poi dovrai accompagnare tu tua sorella in piscina». I sentimenti di questi ragazzi spesso oscillano tra la tristezza e la rabbia; frequentemente si sentono in colpa per la rabbia che provano e per i sentimenti ambivalenti verso i genitori. Possono reagire aumentando la loro presenza in casa o al contrario cercando di allontanarsene più possibile.
Usano meccanismi di difesa molto massicci negando la propria sofferenza o rimuovendo l’aggressività e possono apparire freddi, distaccati, indifferenti.
La sofferenza che provano può prendere diverse forme: depressione, ansia, isolamento sociale, disinvestimento scolastico, sintomi somatici, autolesionismo come procurarsi ferite o torturarsi la pelle, comportamenti a rischio come uso di sostante o sessualità promiscua, disturbi del sonno, disturbi del comportamento alimentare.
I ragazzi che hanno genitori malati possono sentire di portare il peso di convivere con la malattia, la paura di apparire diversi ai coetanei, un senso di abbandono perché avvertono la minore disponibilità emotiva dei genitori, presi dalle preoccupazioni per la malattia. Spesso non parlano coi genitori proprio per evitare di mettere in circolo ulteriori angosce e per proteggerli.
Per aiutarli, occorre conoscere i loro bisogni: veder riconosciuto il proprio dolore ed essere sostenuti, ma in modo discreto che non li faccia sentire svalutati o diversi dai coetanei; avere dei break in cui poter pensare ad altro; potersi impegnare in molte attività, perché li aiuta a staccare, a ricaricarsi e a stare con i compagni; riconoscere e gestire i nuovi sentimenti che ora provano e soprattutto, essere rassicurati che sono sentimenti normali; imparare a gestire le nuove responsabilità e i nuovi compiti senza assumersi carichi inopportuni per la loro età.
Dott.ssa Lucia Montesi
Psicologa Psicoterapeuta
Piane di Camerata Picena (AN)
Montecosaro Scalo (MC)
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