All’inizio, l’improvviso obbligo a restare in casa ci aveva fatto arrabbiare, protestare, avvilire; l’unico desiderio era riappropriarci della libertà sottratta. Dopo qualche settimana, alcuni cominciavano a confessare, non senza un certo imbarazzo, che la cosa stava diventando sopportabile e persino piacevole. Nel momento in cui siamo stati di nuovo liberi di uscire, molti si sono scoperti inaspettatamente esitanti e non più così desiderosi di tornare alla normalità, cosa impensabile alcune settimane prima. Un finale sorprendente, insomma, ma non così strano se consideriamo che stare a casa ha significato, sì, doverci confrontare con la rinuncia, la mancanza o la noia, ma d’altra parte ci ha permesso di sentirci sicuri e protetti.
Ora uscire di casa ci richiede di confrontarci di nuovo con la paura del contagio e di convivere con uno stato costante di allerta, perchè il pericolo può venire da chiunque. Anche se nella maggior parte delle regioni il numero dei contagi si è quasi azzerato, non sappiamo ancora cosa accadrà nei prossimi giorni in seguito alla riapertura, se ci sarà una nuova ondata, se emergeranno nuovi focolai. Dentro le nostre case eravamo al sicuro dal contagio; se anche eravamo costretti a uscire per lavoro o necessità, le occasioni di incontrare altre persone erano ridotte al minimo. Rientrando a casa, avevamo comunque un certo controllo e potere di ridurre i rischi, adottando in accordo coi nostri familiari conviventi certe misure precauzionali più o meno rigide. Ora il nostro potere è molto minore perchè deve essere negoziato con tante altre persone, dipendiamo molto di più dal senso di responsabilità degli altri e questo genera ansia e incertezza.
Prima i divieti erano categorici e, anche se sgradevoli e frustranti, sollevavano dalla responsabilità di decidere. Ora ci troviamo continuamente a dover decidere, ad esempio, se andare o no al ristorante, se entrare o meno in un negozio, se passeggiare in una certa zona della città, dovendo valutare se ci sono le condizioni adatte, se è il caso di rimandare dato che ci sono già altre persone con il rischio di non poter mantenere il distanziamento necessario, se siamo abbastanza al sicuro in quel posto anche se il tizio in coda vicino a noi non indossa la mascherina.
E non sono solo le condizioni oggettive a influenzare le nostre decisioni, ma interviene anche la pressione sociale. I più cauti si scontrano con i più disinvolti: i primi accusano i secondi di essere irresponsabili e menefreghisti, questi da parte loro deridono i prudenti sbeffeggiandoli come schiavi di un sistema che vuole solo limitare la nostra libertà. Fa riflettere il fatto che coloro che osservano diligentemente le norme raccomandate, si sentano in dovere di giustificarsi, di sottolineare che se lo fanno, è per rispetto degli altri e non per codardia o perchè sono ansiosi o comunque “esagerati”.
Sui social circolano fin troppi post di questo genere, segno che molti sentono la necessità di giustificare quello che dovrebbe essere ovvio: ciò che dovrebbe essere un comportamento dettato dal senso civico e messo in atto da ciascuno in primo luogo a propria tutela, diventa invece qualcosa di cui vergognarsi. Se questo accade tra gli adulti e può metterci in difficoltà (l’amico che viene a trovarci e ci dice “Ma togliti quella mascherina, su, siamo tra noi.. quanto sei pauroso!”), pensiamo a quanto possa incidere tra ragazzi adolescenti, per i quali il giudizio del gruppo dei coetanei è vitale e che mai vorrebbero fare la figura degli “sfigati” troppo apprensivi.
Durante il lockdown, le misure uguali per tutti e il pericolo sentito in modo molto intenso hanno favorito un senso di unità e di solidarietà; ora la diversificazione delle misure su base locale e il pericolo percepito come più lontano fanno emergere maggiormente le esigenze dei singoli a discapito della collettività. Invece proprio in questo momento siamo più che mai interconnessi, perchè la salute di uno dipende dal comportamento dell’altro in misura molto maggiore che nella fase 1. Ora a maggior ragione dobbiamo prenderci cura degli altri, se vogliamo uscire da questo incubo e magari prevenirne altri futuri, al di là del Covid-19.
Il ritorno alla normalità corrisponde anche al manifestarsi del disagio psicologico rimasto finora in gran parte congelato per la velocità del trauma che abbiamo subito. Per molti comincia solo ora la reale consapevolezza di ciò che ci ha travolto, con relativa sintomatologia che spazia dall’ansia, alla depressione, all’insonnia, ai sintomi psicosomatici. Anche chi ha vissuto le settimane di isolamento sociale in relativa serenità, senza particolari motivi di sofferenza, può trovarsi a manifestare per la prima volta nella vita attacchi di panico, ipocondria, pensieri ossessivi, perchè comunque è stato in qualche misura colpito da un trauma sociale che ha messo a nudo la vulnerabilità di tutti.
D’altra parte, per molti questa dolorosa esperienza è stata occasione di crescita interiore, come non di rado accade in seguito ai traumi. É proprio l’attraversamento del trauma, con le sofferenza e le emozioni sgradevoli che comporta, a favorire un’evoluzione personale e, in questo caso, la possibilità di una nuova normalità più ricca e appagante della precedente.
Dott.ssa Lucia Montesi
Psicologa Psicoterapeuta
Piane di Camerata Picena (AN)
Montecosaro Scalo (MC)
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