La notizia è circolata alcuni giorni fa: i familiari di un malato oncologico terminale hanno denunciato pubblicamente il modo brusco con cui una dottoressa avrebbe comunicato la verità al malato sulla sua prospettiva di vita.
Lavoro in un reparto oncologico, e ho voluto soffermarmi a leggere con attenzione i commenti dei lettori sotto gli articoli che riportavano la notizia, per saggiare la posizione dell’opinione pubblica sul tema da sempre dibattuto della comunicazione di cattive notizie al malato di cancro.
Due cose mi hanno colpito, scorrendo i commenti. Intanto, chi si immedesimava nella parte del malato, nella maggior parte dei casi reclamava il diritto ad essere informato (“Sapere è un mio diritto”, “ Io vorrei sapere per poter decidere autonomamente”, “Vorrei sapere per poter sistemare questioni importanti”), mentre chi parlava da familiare di malati, tendenzialmente riteneva giusto non informare (“Non si devono togliere speranze ai malati”, “A mio padre non lo abbiamo detto per non farlo preoccupare”, “ Mia madre non deve sapere, si deprimerebbe e si lascerebbe andare”).
Si conferma ciò che anche gli studi sull’argomento rilevano: la maggior parte delle persone intervistate dichiara che vorrebbe sapere la propria diagnosi (e, in misura minore, la prognosi) nel caso si ammalasse di cancro. Nel caso che la malattia colpisca un familiare, invece, una discreta percentuale ritiene che sia meglio che non sappia la verità.
L’altro dato evidente nei commenti alla notizia, è che moltissime persone non conoscono la normativa sull’informazione al malato e, ad esempio, credono che sia passibile di denuncia il medico che rivela a un malato informazioni sul suo stato di salute, in contrasto con la richiesta dei familiari di tenerlo all’oscuro. Pensano, quindi, che il familiare possa decidere cosa e quanto debba essere comunicato.
In realtà, il Codice di Deontologia medica è molto chiaro, e all’articolo 33 stabilisce che il medico ha l’obbligo di informare: “Il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate”. Tuttavia, aggiunge un passo estremamente importante: “Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter provocare preoccupazione e sofferenza alla persona, devono essere fornite con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza”. Stabilisce anche che non è il familiare a poter decidere se informare il malato, ma è anzi l’opposto: è il malato che deve esplicitamente indicare se vuole che i familiari siano autorizzati ad avere informazioni sul suo conto.
Infine, il Codice Deontologico contempla l’ipotesi che una persona non voglia sapere il proprio stato di salute e afferma che, una volta espressa tale volontà esplicitamente, questa va accolta: “La documentata volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto l’informazione deve essere rispettata”.
Ma come è possibile, concretamente, realizzare un’informazione che rispetti i bisogni e la volontà del malato? L’OMS raccomanda di utilizzare, per la comunicazione di cattive notizie, il modello della comunicazione personalizzata, costruita su misura nella relazione con ogni singolo malato. Esistono diversi protocolli che guidano il medico o altri operatori nella comunicazione di cattive notizie. Uno dei più noti è il protocollo SPIKES, che prevede alcuni passaggi. Il primo è preparare un contesto adatto: un tempo sufficiente da dedicare alla persona, in un ambiente protetto da disturbi, con un atteggiamento accogliente ed empatico del medico. Il passaggio successivo, è capire quanto la persona sa già della sua condizione (“Cosa le è stato detto della sua malattia?”, “Che idea si è fatto?”, “Come ha scoperto la sua malattia?”), e poi capire cosa desidera sapere: “Vuole che le spieghi meglio o le basta ciò che sa?”, “Se i risultati fossero sfavorevoli, vorrebbe sapere in dettaglio o preferisce che ne parli con qualcun altro?”, “Lei è un tipo di persona che vorrebbe sapere, se ci fosse qualcosa di serio in atto?”.
Solo dopo questi passaggi, si dà l’informazione, adeguandosi a quanto espresso dal paziente, procedendo comunque per gradi, lasciando lo spazio per le domande, lasciando sempre margini di speranza, utilizzando un linguaggio comprensibile e non traumatico, verificando quanto la persona ha compreso.
Altro passaggio fondamentale è riconoscere ed esplorare le emozioni dopo la notizia: “Vuole che parliamo del suo stato d’animo?”, “Cosa la preoccupa in particolare?”, “Ho l’impressione che si senta spaventato”, empatizzando con le emozioni del malato, comprendendole e normalizzandole. Solo dopo aver dato adeguato spazio all’espressione emotiva, si passa al “cosa fare”: le possibili alternative, i pro e i contro, le preferenze del malato, la decisione su come procedere.
Seguendo questi passaggi, è più probabile che la comunicazione sia rispettosa delle capacità del singolo malato di tollerare le informazioni sul suo stato di salute, evitando sia di eludere il suo bisogno o desiderio di sapere, sia di sovraccaricarlo di un’angoscia che non può gestire in quel momento.
Dot.ssa Lucia Montesi
Psicologa Psicoterapeuta
Piane di Camerata Picena (AN)
Montecosaro Scalo (MC)
Tel. 339.5428950