Stefano: «Sono figlio unico, perciò mi circondo di amici per colmare la solitudine».
Franco: «Sono figlio unico, perciò sto bene anche in solitudine».
Tiziana: «Sono triste, perciò mi chiudo in me stessa a riflettere».
Sonia: «Sono triste, perciò cerco qualcuno con cui parlare».
Marco: «Il dramma che ci è accaduto mi ha inevitabilmente avvicinato a mia moglie».
Michele: «Il dramma che ci è accaduto mi ha inevitabilmente allontanato da mia moglie».
Francesca: «Sono malata, quindi mi aspetto che gli altri mi trattino diversamente, con più attenzioni»
Roberta: «Sono malata, quindi mi aspetto che gli altri mi trattino come sempre, per non farmi pensare ancora di più alla malattia».
Sono solo alcuni esempi di modi molto diversi, se non diametralmente opposti, di reagire, sentire e comportarsi di fronte a una stessa situazione o uno stesso evento stressante. Il problema è che a fronte di tanta diversità, che tutti possiamo osservare costantemente nella vita quotidiana, ciascuno è invece convinto che il proprio modo sia quello ovvio, scontato, naturale, e in genere si aspetta che anche gli altri sentano le stesse emozioni e abbiano lo stesso comportamento, generando delusione, incomprensioni, conflitti.
Diciamo comunemente frasi come “Siamo tutti diversi”, “Il mondo è bello perché è vario”, che lasciano intendere una consapevolezza della profonda differenza tra le persone, peraltro facilmente constatabile, ma poi, al dunque, e soprattutto quando sono in ballo le nostre emozioni e i nostri sentimenti, sembra che dimentichiamo questo dato di fatto e diventiamo inspiegabilmente ciechi di fronte a una realtà tanto evidente.
Ho dovuto prenderne atto anche nel modo di organizzare i corsi di formazione per il personale di assistenza e cura e per i volontari. Inizialmente, avevo l’abitudine di aprire i corsi con un lavoro sull’ascolto, per esercitarsi ad ascoltare con empatia un altro che racconta la sua esperienza, la sua storia e le sue emozioni mettendosi nei suoi panni e senza giudicare, finché mi sono resa conto che era necessario fare un passo indietro, partire da un passo ancora più a monte. Ho notato infatti che anche professionisti della cura, avvezzi a occuparsi anche della relazione con l’assistito, facevano fatica a concepire che altre persone potessero reagire alle situazioni in un modo diverso da come avrebbero reagito loro, che potessero provare emozioni diverse da ciò che avrebbero provato loro.
Non si tratta semplicemente di giudicare il modo dell’altro sbagliato, ma proprio di non concepirne la possibilità: non può essere che l’altro senta qualcosa di diverso. Ne consegue che l’ascolto dell’altro diventa inevitabilmente problematico, se non impossibile: non posso accogliere quello che prova un altro, se non contemplo l’ipotesi che possa sentire in modo diverso dal mio.
Le persone reagiscono in modo diverso agli stessi eventi, tanto che uno stesso evento può rappresentare uno stress o un trauma per uno e non per un altro. Innumerevoli fattori intervengono a produrre la risposta finale: il temperamento che possediamo già alla nascita; le influenze dell’ambiente in cui viviamo; l’educazione ricevuta; la storia della nostra famiglia; i modelli di comportamento che abbiamo appreso dalle figure significative e che possiamo riproporre o al contrario rifiutare, comportandoci all’opposto; i meccanismi di difesa con cui fronteggiamo l’ansia e che sono in gran parte inconsci; il grado di supporto sociale che percepiamo intorno a noi; l’influenza della cultura e del gruppo sociale a cui apparteniamo. L’elenco è così lungo che appare scontato trovare modi diversi di reagire, eppure noi continuiamo ad aspettarci che gli altri siamo come noi. Perché accade?
Al di là di possibili fattori puramente individuali, una possibile spiegazione a questa nostra “cecità” si trova nelle distorsioni cognitive con cui comunemente tutti processiamo le informazioni. Il nostro cervello, infatti, di fronte alla gran mole di dati che riceviamo ogni istante, non può analizzare tutto in modo dettagliato e approfondito e tende ad usare delle scorciatoie, delle semplificazioni della realtà, che sono utili per orientarci e prendere decisioni in fretta, ma ci portano anche e grossolani errori o ipersemplificazioni. L’“effetto falso consenso”, ad esempio, ci porta a pensare che le persone che ci circondano siano d’accordo con noi e condividano le nostre idee e il nostro punto di vista e a convincerci che i nostri valori e le nostre credenze siano comuni e normali.
Il “bias dell’egocentrismo” (con il termine bias si indicano i pregiudizi e le distorsioni operate dal pensiero umano) ci induce a basarci sulla nostra opinione e ci rende faticoso prendere in considerazione il punto di vista degli altri. Il “bias del conservatorismo” ci fa preferire mantenere il nostro punto di vista piuttosto che metterlo in discussione accettando la possibilità di altre prospettive. Il “bias della congruenza” fa sì che tendiamo a testare e confermare solo la validità delle nostre ipotesi piuttosto che metterne alla prova l’infondatezza.
La “percezione selettiva” ci porta a dare attenzione solo a ciò che conferma le nostre convinzioni e a ignorare o dimenticare i dati che le contraddicono, mentre la “convalida soggettiva” ci induce a valutare corretta un’informazione se convalida i nostri schemi cognitivi. Tutto concorre quindi a restringere la visuale sulla nostra esperienza.
Per finire, subiamo anche il “bias del punto cieco”, per cui non ci rendiamo conto di essere limitati dai nostri stessi bias! E tutto questo accade probabilmente perché ci permette una sensazione di maggiore sicurezza e controllo di fronte a una realtà caotica e imprevedibile. Allo stesso tempo, però, conoscere questi meccanismi e allenarci a diventare più consapevoli di quando e come entrano in funzione, ci permette di esserne meno schiavi e di attenuarne le possibili conseguenze negative.
Dott.ssa Lucia Montesi Psicologa Psicoterapeuta
Piane di Camerata Picena (AN)
Montecosaro Scalo (MC)
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