Benessere

Perché è difficile ascoltare davvero

Ascoltare può sembrare un'attività semplice, ma molte persone non riescono a offrire un ascolto reale ed empatico. Ecco quali possono essere gli ostacoli a un ascolto efficace dell'altro

amiche al mare
(Foto di Pexels da Pixabay)

Essere ascoltati è un bisogno umano fondamentale. Soprattutto nei momenti di difficoltà e di sofferenza, il solo fatto che qualcuno ci ascolti con interesse e partecipazione ci conforta, ci fa sentire compresi, meno soli,  riconosciuti, e allevia il carico emotivo. Molte persone lamentano il fatto di non trovare qualcuno che le ascolti davvero, d’altra parte la maggior parte delle persone ritiene di essere un buon ascoltatore. Ascoltare sembra infatti semplice e molti credono di ascoltare in modo efficace, ma in realtà all’altro non arriva la percezione di essere ascoltato. Questo accade perché l’ascolto è un’abilità complessa che chiama in causa le nostre emozioni, e quando sono in gioco le nostre emozioni, rischiamo facilmente di incontrare ostacoli, resistenze e blocchi.

Lucia Montesi
La psicoterapeuta Lucia Montesi

“Parlare dei propri problemi non equivale automaticamente a sollecitare una soluzione” (J. Gray).
La maggior parte delle persone quando parla di un proprio problema non si aspetta una soluzione, ma riceve sollievo dal solo fatto di essere ascoltata, di potersi esprimere, di sfogarsi, di avere una presenza calma e accogliente che contiene le proprie emozioni. Anzi, a volte il sentirsi dare una soluzione prematura blocca la comunicazione e fa sentire non compresi. Questo accade soprattutto alle donne, che rispetto agli uomini fanno un maggior uso dello sfogo emotivo e generalmente si sentono meglio quando si sentono ascoltate, mentre gli uomini tendenzialmente cercano e offrono soluzioni, oppure non parlano affatto e tentano di risolvere da soli ciò che li fa stare male o li preoccupa.

“La maggior parte della gente non ascolta con l’intento di capire; ascolta con l’intento di rispondere” (S. R. Covey).
La convinzione che chi parla di un problema voglia una soluzione, porta la maggior parte delle persone a preoccuparsi di come rispondere, cosa dire, come consolare, che consiglio offrire. Questa preoccupazione interferisce con l’ascolto stesso, perché invece di concentrarsi sulla comprensione dell’altro, impegna la mente nell’escogitare una soluzione da dare al più presto.
D’altra parte, la soluzione preconfezionata data da un altro raramente è efficace, mentre se non ci lasciamo prendere dall’ansia di rispondere e stiamo ben in ascolto per cogliere tutti i segnali che l’altro ci invia, sarà molto più facile aiutarlo a darsi da sé una soluzione, incoraggiandolo semplicemente a riflettere su ciò che ci ha già espresso, senza dover aggiungere nulla di nostro.

“La nostra prima reazione di fronte all’affermazione di un altro è una valutazione o un giudizio, anziché uno sforzo di comprensione.” (C. Rogers). Uno dei principali ostacoli all’ascolto sono le nostre opinioni, i nostri valori, le nostre visioni del mondo, che ci portano a giudicare l’altro che ci parla. Quando lavoro con i gruppi sulla competenza dell’ascolto, assegno un esercizio che ogni volta si rivela molto illuminante. Si tratta di lavorare in coppia e scegliere un argomento “caldo”, di quelli su cui spesso si aprono dibattiti e scontri (eutanasia, interruzione di gravidanza, accoglienza dei migranti…).
Ciascun membro della coppia deve immedesimarsi sia nella posizione pro che in quella a favore sul tema scelto, difendendola con convinzione, e l’altro deve ascoltare in modo accogliente, empatico e non giudicante, e poi si scambiano i ruoli.
Quando gli interlocutori hanno la stessa visione e gli stessi valori, l’ascolto fila liscio ed è facile lasciare che l’altro parli, che esprima le sue ragioni, cosa che  facilita anche la comprensione e condivisibilità della sua posizione. Quando invece ci si trova a dover ascoltare una posizione che diverge dai propri valori, l’ascolto si interrompe molto presto intervenendo obiezioni, giudizi, tentativi di far cambiare idea all’altro.

“La gente non ascolta, aspetta solo il suo turno per parlare” (C. Palahniuk).
Il bisogno così umano di essere ascoltati interferisce con la possibilità di fermarci ad ascoltare un altro, perché abbiamo bisogno a nostra volta di parlare di noi, esprimere il nostro punto di vista, raccontare la nostra esperienza. Questo bisogno di parlare si rende evidente in quelle situazioni in cui per definizione l’ascolto dell’altro dovrebbe essere centrale e prioritario.
Prendiamo ad esempio il volontario che presta assistenza a persone malate o con altre difficoltà: anche in questi casi, non è infrequente che mentre il malato sta parlando di sé e delle sue emozioni e sia quindi massima la necessità di lasciarlo esprimere, il volontario “rubi la scena” al malato inserendosi con la sua esperienza, a volte l’esperienza della medesima malattia o della medesima difficoltà. “Anche a me è successo che…” e si interrompe l’altro per portare in primo piano la propria storia e le proprie emozioni. Non è di per sé sbagliato raccontare la propria esperienza  e può anzi accadere che un assistito chieda al volontario di raccontagliela, ma appunto in questo caso è una richiesta dell’assistito dopo che ha avuto modo di esprimersi, ma spesso succede che non aspettiamo l’eventuale domanda e ci inseriamo prematuramente parlando di noi e bloccando l’ascolto.

“Nella comunicazione la cosa più importante è ascoltare ciò che non viene detto” (P.F. Drucker).
La comunicazione è composta in parte da ciò che viene detto con le parole e in parte da ciò che si esprime attraverso il non verbale. Questa seconda parte è quella più importante, perché dà un senso alle parole e ci fa capire come dobbiamo interpretarle. Il tono della voce, lo sguardo, i gesti, la postura, la distanza fisica sono tutti segnali che dicono la verità più delle parole, perché sono difficilmente controllabili e occultabili.
Perciò se una persona ci dice che sta bene e che non c’è nessun problema, ma ce lo dice guardando in basso, con un tono della voce spento, con le spalle ricurve, dobbiamo essere in grado di “ascoltare” e cogliere questi aspetti al di là delle parole pronunciate, perché sono indizi più veritieri del suo reale stato d’animo.

“Il coraggio è quello che ci vuole per alzarsi e parlare; il coraggio è anche quello che ci vuole per sedersi e ascoltare” (W. Churchill).
Ascoltare significa a un livello profondo correre il rischio di non capire, di sentirci confusi, non riuscire ad aiutare l’altro, non poterlo salvare: il rischio, insomma, di dover rinunciare alla nostra onnipotenza. Questo accade soprattutto quando una soluzione da offrire non c’è, ad esempio quando qualcuno ci parla di una malattia grave, o di un lutto. Ascoltare una persona che sta male, che sfoga la sua paura, la sua rabbia, la sua tristezza è estremamente faticoso e anche tanto più difficile e doloroso, quanto più quella persona ci è cara e la amiamo. Sentirla lamentarsi per un dolore che non possiamo alleviare o imprecare per quello che deve sopportare è uno strazio per le persone vicine, tanto da avere voglia di scappare.
I silenzi fanno paura e siamo tentati di cambiare discorso o affrettarci a sdrammatizzare per riempire il silenzio e sfuggire all’angoscia o all’imbarazzo. Le nostre emozioni minacciano la possibilità di restare in ascolto, perché temiamo il contagio dell’angoscia e scappando dall’ascolto, rassicuriamo noi stessi.
Eppure accettare la nostra impotenza e tollerarla è ciò che più aiuta: si realizza un’umana condivisione dell’impotenza, che calma e conforta più del proporre una facile ma illusoria soluzione.

Dott.ssa Lucia Montesi Psicologa Psicoterapeuta
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