Benessere

Rabbia, frustrazione, paura: come reagiamo alle ingiustizie?

La percezione di cosa è ingiusto può variare da una persona all'altra e portare a reazioni differenti. L'analisi della psicoterapeuta Lucia Montesi

(Foto di Martine da Pixabay)

«Non è giusto!», quante volte questa frase viene pronunciata in psicoterapia, accompagnata dai suoi corollari: «Non doveva andare così», «Non me lo meritavo/non se lo meritava», «Perché proprio a me/a lui/a lei?», «Cos’ho fatto di male?», «Non lo posso accettare», «Non posso farmene una ragione». Soprattutto di fronte a circostanze drammatiche della vita, si leva un senso di profonda ingiustizia, accompagnato da emozioni di rabbia, frustrazione, impotenza, paura. Ma anche per situazioni meno gravi, per piccoli torti subìti o per eventi sgradevoli della vita quotidiana che accadono a noi o ad altri o per le innumerevoli disuguaglianze esistenti sia tra umani che tra animali,  possiamo provare un senso di ingiustizia. Anche in questo caso, come sempre quando ci occupiamo della mente umana, esistono ampie differenze tra le persone nella maggiore o minore suscettibilità alle ingiustizie, nel modo in cui interpretano l’ingiustizia e nel modo in cui reagiscono alla percezione di un’ingiustizia subita da sé o da altri. Di fronte a situazioni di dolore e ingiustizia, nel cervello si attivano le aree del disgusto e della rabbia, reazioni fisiologiche che accomunano tutti, ma le reazioni cognitive con cui poi elaboriamo queste emozioni possono differire tra gli individui e l’idea personale di giustizia può coincidere o meno con la giustizia “ufficiale”.

Molte persone credono in un mondo giusto: pensano che vi sia un ordine per cui chi si comporta bene è premiato e chi si comporta male è punito. Si tratta di un bias, ovvero un errore cognitivo, che risponde al bisogno di credere che nel mondo esista una qualche giustizia che prima o poi compenserà i torti subiti e di sentirci fiduciosi e al sicuro. Ma in natura non esistono giustizia o ingiustizia: essi sono costrutti umani e dobbiamo esserne consapevoli per non cadere vittime di una sofferenza senza uscita. Noi umani abbiamo bisogno di dare un senso, un ordine a ciò che accade nella vita e distinguere bene e male, giusto e sbagliato: soprattutto, abbiamo bisogno di dare un significato alle esperienze più dolorose. Tuttavia, la vita non è né giusta né sbagliata e innumerevoli avvenimenti mettono in crisi le nostre attese di giustizia. E più pretendiamo una giustizia che in natura non esiste, più proviamo rabbia e sconforto. Secondariamente, il bisogno di mantenere questa illusione di un ordine giusto può portare a una colpevolizzazione delle vittime di ingiustizia. Un altro errore cognitivo è la cosiddetta “fallacia della giustizia”: la tendenza a valutare come ingiusto tutto ciò che non coincide con i nostri desideri e con il nostro modo di vedere.

Lucia Montesi
La psicoterapeuta Lucia Montesi

Di fronte alla percezione di un’ingiustizia, si aprono diverse strade: indignarci, protestare, attivarci per cambiare, per ottenere ciò che giusto o riparare l’ingiustizia, vendicarci, oppure accettare l’ingiustizia, o subirla passivamente, o perdonare, o giustificarla come tollerabile modificando le nostre credenze. Sono possibili due direzioni opposte: agire sull’ingiustizia per rendere la realtà coerente con la nostra idea di giustizia, o invece interpretare la realtà in modo che non entri in contrasto con la nostra visione di giustizia. Questa seconda direzione subentra soprattutto se siamo impotenti, inermi, non in grado di rendere le cose migliori e meno ingiuste: in questo modo possiamo ristrutturare in modo costruttivo l’ingiustizia e vederla ad esempio come una sfida (“Sono stato licenziato ingiustamente, ma ne farò occasione per trovare un lavoro ancora migliore”). D’altra parte, però, possiamo anche finire per giustificare gravi iniquità ricorrendo a una spiegazione razionale, o addirittura addossare qualche colpa alla vittima dell’ingiustizia, anche quando la vittima siamo noi: “In fondo un po’ se l’è cercata/me la sono cercata”, “Me lo sono meritato”. Piuttosto che sentirci in balìa del caos e dell’incomprensibile, preferiamo dare delle giustificazioni che possono diventare più aberranti e disumane dell’ingiustizia stessa, ma rispondono al bisogno di dare un senso alla sofferenza nostra e altrui. Si tratta quindi di una ristrutturazione cognitiva della realtà, che ci fa sentire meglio e ci illude che l’ingiustizia non sia tale, mentre nei fatti essa permane con tutte le sue conseguenze.

Alcune persone tendono costantemente a subire ingiustizie soffrendo senza reagire, oppure presentano un atteggiamento vittimistico, un lamento sterile per le ingiustizie subite, un rancore contro altri considerati colpevoli o che sembrano avere il meglio dal destino. Possono fondare la propria identità sull’essere delle vittime delle ingiustizie della vita e restare aggrappate al dolore e all’amarezza. Queste persone hanno bisogno di essere aiutare a costruire un senso di agentività, ovvero sentirsi in grado e in diritto di costruire attivamente la propria storia. Non subire le ingiustizie ed attivarsi in prima persona, nel caso sia possibile evitarle, permette di ottenere il rispetto degli altri ed evitare che continuino ad approfittarsi di noi. In questo caso, la rabbia che accompagna il senso di  ingiustizia è un prezioso carburante da utilizzare per reagire e difendere i  nostri diritti. Soffocare la rabbia sarebbe come sprecare proprio quella risorsa che può aiutarci a impostare rapporti più paritari.

La vendetta è connotata in modo fortemente negativo nella nostra cultura e considerata moralmente inaccettabile. Tralasciando in questa sede la connotazione morale e la visione religiosa della vendetta, da un punto di vista psicologico la vendetta può fornire un sollievo e la sensazione di aver “pareggiato i conti”. Fantasticare sulla vendetta può di per sé dare sollievo e restituire un senso di potere e di controllo, anche quando non venga messa effettivamente in atto. D’altra parte, il rischio della vendetta come reazione alle ingiustizie è quello di consumare molte energie nell’attesa e nella preparazione della vendetta stessa mettendo in sospeso la propria vita e sottraendole ad azioni più costruttive a lungo termine per la vittima, oppure c’è il rischio di concentrarsi solo sulla vendetta e non lavorare altrettanto per modificare il proprio atteggiamento e porsi maggiormente al riparo dalle ingiustizie. Inoltre, la vendetta mira a punire, in genere provocando dolore all’altro, con tutte le conseguenze negative che ne conseguono.

Perdonare comporta rinunciare a ogni rivalsa su chi ha commesso l’ingiustizia e annullare il risentimento nei suoi confronti. Se vissuto come libera scelta e come personale elaborazione degli eventi, può alleviare o eliminare il dolore. Generalmente, il perdono corrisponde a una ristrutturazione cognitiva dell’ingiustizia subita, ad esempio attribuendo un’assenza di reale intenzionalità a chi si è comportato in modo ingiusto, oppure individuando possibili ragioni, o empatizzando con il suo stato emotivo.

Alcune ingiustizie sono fuori dal nostro controllo e non ci resta che accettarle. L’accettazione di qualcosa che non possiamo cambiare è un processo difficile ed è importante normalizzare questa difficoltà, riconoscendo le emozioni negative che accompagnano il percorso, la necessità di tempi lunghi, la legittimità della ribellione e del rifiuto di accettare. Soprattutto, l’accettazione non è qualcosa che si può prescrivere e che si può decidere di provare. Accettare le ingiustizie significa prendere atto che si può essere immeritatamente vittime di un’ingiustizia, che non sempre “Ognuno ha quel che merita”, che purtroppo esistono eccezioni ingiuste. Questo ci permette anche di uscire dalla colpevolizzazione della vittima, sia nei confronti degli altri che di noi stessi. Il credo religioso è uno dei modi di inserire l’ingiustizia in un piano superiore che la rende più accettabile, ma lo stesso pensiero di un ordine superiore che comprenda anche l’ingiustizia può essere sviluppato anche da chi è laico.

Dott.ssa Lucia Montesi Psicologa Psicoterapeuta
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