«Lei è madre?», «No», «Allora lei è un ramo secco e non può parlare. Procediamo, ci sono altre domande?». Quel giorno, alla scuola di specializzazione in psicoterapia che frequentavo, avevamo ospite Frédérick Leboyer, l’ostetrico e ginecologo francese noto in tutto il mondo per aver ideato il metodo del cosiddetto “parto dolce” o “parto senza violenza” e il massaggio neonatale. Dopo una giornata di studio, esercitazioni e discussione di casi clinici, era il momento delle domande e dei commenti. La frase con cui liquidò immediatamente chi di noi non aveva figli ci raggelò tanto che nessuna fu in grado di obiettare alcunchè.
In quel periodo stavo facendo i conti con una diagnosi di infertilità e quelle parole mi ferirono profondamente. Mi sentii anche tradita da chi aveva invitato quel personaggio in quel nostro spazio in cui, da cinque anni per due volte al mese, io e le mie colleghe psicologhe mettevamo a nudo e condividevamo anche le nostre sofferenze personali, e in cui avevamo imparato a usare, tra noi e con i nostri pazienti, il linguaggio dell’empatia, dell’accoglienza e del rispetto. Quelle parole così violente stridevano clamorosamente con tutto ciò a cui eravamo abituate e il fatto che provenissero proprio dal sostenitore di qualcosa di “non violento” mi lascia ancora esterrefatta dopo tanti anni.
Altro tempo, altro contesto, modalità molto diversa, certamente non paragonabile. Sta passando da diversi mesi in tv uno spot per sensibilizzare sulla raccolta fondi destinata a combattere gravi malattie infantili. Ne esistono due versioni. In quella più recente è stata aggiunta la figura di una donna che introduce e spiega. Lo spot è molto intenso e coinvolgente ed è lodevole per l’intento di promuovere la ricerca in favore di questi bambini. Non ho potuto fare a meno di notare, tuttavia, l’uso di una precisa strategia comunicativa. La donna esordisce con «Sono una mamma…», e a un certo punto dice «Chi è genitore, non può restare indifferente…», insistendo più volte sul concetto. Capisco la probabile inconsapevolezza e il tentativo di agganciare il telespettatore facendo leva sull’identificazione e la risonanza emotiva dei genitori, d’altra parte mi chiedo se non si potesse evitare quella formula. Non credo di essere la sola ad aver pensato con una certa crudezza: «Ah, quindi chi non è genitore li lascia crepare senza remore, grazie per la considerazione e la fiducia!».
Chi non ha figli è abituato a sentirselo dire: «Tu non hai figli, non puoi capire», «Quando sarai genitore anche tu, ne riparleremo!». Sono soprattutto le donne a dirlo, non mi sembra di aver mai sentito nessun padre proferire le famigerate parole. Pochi si rendono conto di quanto la frase possa risultare odiosa e possa ferire soprattutto chi i figli non li può avere ma li desidererebbe tanto.
Tra l’altro, è una frase senza fondamento. Purtroppo, tutti possiamo constatare quanto l’essere genitore non sia una condizione sufficiente per capire, per sapere cosa fare, per prendersi cura in modo sano di un bambino. Come terapeuta familiare, vedo costantemente bambini sofferenti a causa delle difficoltà dei loro genitori. D’altro canto, tutti conosciamo persone senza figli che si rivelano straordinariamente capaci di prestare cura ai bambini, di comprenderne i disagi, di sostenerli nella crescita.
Ho notato che la frase incriminata viene usata soprattutto per mettere fine a conversazioni in cui il genitore si sente criticato o messo in discussione o non compreso. Mi è capitato un paio di volte anche nel lavoro terapeutico, in situazioni in cui la persona si sentiva messa all’angolo per la sua modalità inadeguata di cura e in cui probabilmente io non ero stata abbastanza empatica e supportiva per evitare che si sentisse giudicata.
Capita anche che alcune persone, chiamando per un primo appuntamento con lo psicologo, chiedano esplicitamente al professionista se abbia o meno figli, perché «Preferirei una psicologa che sia anche mamma, sa, così può capire meglio le difficoltà!». Ma il compito dello psicologo non è semplicemente quello di “capire” una difficoltà, e il fatto di aver vissuto la condizione o il problema del cliente non è una premessa necessaria perché possa aiutarlo; a volte può essere addirittura uno svantaggio, quando le risonanze emotive personali possono interferire con una visione obiettiva. Io che lavoro principalmente con persone malate di cancro o persone che si avvicinano alla morte, sarei poi destinata all’impotenza, non avendo per fortuna mai avuto finora un cancro e non essendo mai stata in punto di morte. Eppure mi sono sentita dire dai malati “Lei sembra una di noi”, perché non è necessario averlo vissuto davvero. Nell’essere psicologo, come nell’essere in senso lato genitore di qualcuno, intendendo con questo il prendersi cura di un altro individuo, ci vengono in soccorso la capacità di empatizzare, di sentire le difficoltà e il dolore dell’altro – pur non essendo i nostri – , di metterci nei suoi panni, di stare in ascolto, capacità che possiamo coltivare e che ci aiutano a relazionarci meglio con gli altri.
Dott.ssa Lucia Montesi
Psicologa Psicoterapeuta
Piane di Camerata Picena (AN)
Tel. 339.5428950