«Mutande, calzini, maglia, pantaloni: tutto io devo preparargli, ogni mattina, perché lui non è capace neanche di vestirsi da solo!».
E lui non è un bimbetto di sette, otto anni, ma un uomo di quaranta, cinquanta, sessant’anni suonati. Ascolto spesso le lamentele di donne che mi descrivono mariti e compagni inetti, completamente dipendenti da loro, incapaci – a loro dire – di sopravvivere senza la loro presenza, la loro guida e i loro consigli. Se a volte si tratta di battute divertite, altre volte invece c’è una preoccupazione vera. Penso alle donne malate incontrate in ospedale, angosciate al pensiero di lasciare soli questi compagni, fosse anche solo per il tempo di un ricovero: «Come farà senza di me? Lui non sa cucinarsi neanche un piatto di pasta!».
O quelle che, appunto prima del ricovero, magari piegate dal dolore o dalla stanchezza, passano giorni a cucinare, lavare e stirare e organizzare tutto il possibile, in modo che lui non debba risentire più di tanto dell’assenza. Oppure penso alle donne e mamme esauste per lo sforzo quotidiano di provvedere al lavoro e alla vita familiare, che rabbiose lamentano lo scarso contributo del partner («Lui? È come avere un altro figlio a cui badare!») e minacciano soluzioni drastiche («Ora me ne vado di casa un paio di giorni e vediamo se la capisce!») che poi non mettono mai in atto, accumulando rancore e insoddisfazione.
Malgrado la richiesta di aiuto in tal senso, ogni tentativo di favorire una maggiore autonomia del partner scatena però immediate e forti resistenze: «Ma se non lo faccio io, poi lui non lo fa!», «Ma se non intervengo io, poi lui di sicuro combina qualche guaio e alla fine ci rimetto io!», « Guardi che se non lo vesto io, lui andrebbe in giro troppo leggero, e poi se si ammala a chi tocca stargli dietro? A me!”». La conclusione è pertanto, sistematicamente, «Tanto ormai è così e non cambierà mai».
Il cambiamento non è possibile se accanto alle difficoltà e ai bisogni di questi uomini inetti e dipendenti, non si scoperchiano anche le difficoltà e i bisogni delle loro donne “tuttofare”. Lei apparentemente reclama un maggior contributo da lui, ma poi nei fatti non è disposta a mollare il campo per lasciar fare all’altro e neanche a provare ad arretrare un poco. Può essere perché ha bisogno di sentirsi indispensabile, perché stare lì le conferisce un ruolo centrale e di prestigio, o le consente di esercitare un controllo. Può essere perché non riesce ad abbandonare il ruolo di quella che si sacrifica sempre per gli altri o il ruolo di vittima che deve sempre subire l’incapacità altrui o porvi rimedio. Può temere che l’indipendenza dell’altro significhi una sua maggiore libertà, un minor bisogno di lei, un maggior pericolo che possa anche decidere di fare a meno di lei. Può temere che accudendo meno il partner ne perderà l’amore, può sentirsi in colpa di fronte alle sue proteste, perché lui, per continuare inconsapevolmente il gioco, alzerà il tiro mostrandosi ancora più incapace e bisognoso: «Ma come, perché ora mi abbandoni?».
Può temere, smettendo di occuparsi di tutto, di sentirsi inutile, di perdere il senso della propria vita quotidiana, di essere handicappata, di perdere la propria identità.
Finchè non ci si rende conto di quanto si è a propria volta dipendenti dalla dipendenza dell’altro, nessun cambiamento è possibile, e anzi, per quanto sarà reclamato a gran voce esplicitamente, con altrettanta intensità sarà osteggiato a un livello più inconsapevole. Solo riconoscendo il proprio contributo a questo gioco relazionale, è possibile fermarsi e lasciare lo spazio necessario perché l’altro si attivi. (Dott.ssa Lucia Montesi Psicologa Psicoterapeuta – Piane di Camerata Picena (AN) Tel. 339.5428950)