«Ti trovo bene: carina, truccata, ben vestita… allora non stai così male!»: è uno dei commenti che molte mie pazienti oncologiche o affette da altri importanti patologie si sono sentite rivolgere, e che suscita in loro reazioni di rabbia, indignazione e avvilimento. Se lo sentono dire da conoscenti, amici, estranei; purtroppo a qualcuna è successo di sentirselo dire da medici della commissione per il riconoscimento dell’invalidità. Come se curare il proprio aspetto fosse incompatibile con una condizione di sofferenza fisica o mentale, o come se avere un aspetto curato e magari attraente, fosse certamente indice di assenza di gravi problemi di cui occuparsi.
Quella dell’aspetto esteriore e dell’estetica è una questione che interessa le pazienti oncologiche per diversi motivi, ma i messaggi che arrivano loro dall’esterno sono contraddittori: da una parte sono incoraggiate a “non lasciarsi andare”, a trovare conforto e sollievo anche in piccoli gesti di cura di sé, dall’altra possono sentirsi dire che si tratta di sciocchezze, che devono piuttosto preoccuparsi della salute, fino alla beffa di sentire gli altri mettere addirittura in dubbio la serietà della loro malattia, se sono “troppo belle per essere davvero malate”. Un sospetto che ferisce, tanto più quell’aspetto curato è frutto di uno sforzo o rappresenta il modo con cui si tengono a bada pensieri ed emozioni penosi. Può capitare anche di sentirsi dire “Non devi mettere la parrucca, devi avere il coraggio di mostrarti come sei, perché non c’è nulla di cui vergognarsi, e poi sei bella lo stesso”, messaggio che di per sé potrebbe essere anche condivisibile, ma nella realtà attuale della cultura in cui viviamo finisce per essere ipocrita. Inoltre, in questo modo si pretende proprio da una donna in condizioni di maggiore vulnerabilità la forza di sottrarsi e di contrapporsi alle pressioni sociali in tema di bellezza e aspetto fisico, pressioni che gran parte delle donne normalmente fa fatica a contrastare.
Cosa c’è dietro l’aspetto curato di una donna malata di tumore o di altre patologie importanti?
A volte non c’è proprio nulla di particolare: curava il proprio aspetto prima della malattia e continua a farlo dopo, a farlo durante le terapie, a farlo convivendo con una malattia metastatica. Porta avanti normalmente ciò che ha sempre fatto, un’abitudine, una routine.
In altri casi, il bisogno di curare il proprio aspetto emerge invece in occasione della malattia. Questo può accadere perché la malattia o i trattamenti provocano cambiamenti fisici più o meno significativi. Vedersi mutilate di una o entrambe le mammelle, oppure calve, ha un impatto emotivo importante e per alcune donne traumatico, perché rappresenta una brusca rottura dell’immagine corporea e perché nella cultura in cui viviamo il seno e i capelli sono considerati elementi centrali per definire bellezza e sensualità. Procurarsi una parrucca, studiare un’acconciatura che nasconda un diradamento, truccarsi in un modo che camuffi la perdita di ciglia e sopracciglia può essere il modo per continuare a riconoscersi allo specchio. Anche chi non lo aveva mai fatto prima, può decidere di mettersi un rossetto per spostare l’attenzione sulla bocca, o di usare accessori come orecchini e collane, o di usare i colori dell’abbigliamento per ricostituire una nuova immagine corporea più possibile corrispondente a sé.
Avere un aspetto gradevole può rispondere al bisogno di dare agli altri una certa immagine di sé: non essere vista come una persona malata, essere trattata come sempre, non suscitare commiserazione. Può essere un modo per proteggere gli altri, come succede alle madri che non vogliono far preoccupare un figlio piccolo, non vogliono che veda segni di sofferenza, cercano di far vedere che stanno bene e che tutto procede normalmente. Può essere un modo per tenere a bada la paura di non essere più desiderabile agli occhi di un partner e di essere rifiutata, come la signora che va persino a dormire truccata e con la parrucca, sopportandone tutto il disagio, per la paura che il marito accanto la trovi sgradevole e meno attraente.
Per alcune donne è un grosso sforzo curare il proprio aspetto mentre affrontano una malattia importante, ma lo fanno di proposito o persino con ostinazione perché per loro è come restare aggrappate alla normalità, oppure è un modo per vedersi e sentirsi meno malate.
Per alcune donne può rappresentare una sfida alla malattia o una sfida con sé stesse. Ho in mente una ragazza che, ad ogni uscita, indossa sempre appariscenti scarpe dai tacchi alti su cui zoppica vistosamente. Un’enorme fatica che si percepisce chiaramente pure dall’esterno e che fa pensare “Ma perché ostinarsi a soffrire così?”, e a cui invece si contrappone il suo sguardo estremamente fiero, perché per lei camminare sui tacchi è il segno della sua vittoria, la dimostrazione che i medici che avevano sentenziato “Non camminerai più dopo l’intervento” non avevano fatto i conti con la sua tenacia.
Non tutte le donne reagiscono nello stesso modo, alcune decidono di mostrare e di non camuffare i segni fisici della malattia, degli interventi o delle cure farmacologiche, e anche questa scelta può dipendere da motivi diversi: perché non ritengono importanti questi aspetti di sé, perché non li vivono come un problema, perché danno priorità ad altro, perché sono troppo stanche per occuparsi anche di questo, perché desiderano consapevolmente sfidare gli stereotipi sulla bellezza femminile, perché rivendicano il diritto di essere accettate/apprezzate/amate anche così come sono, senza capelli, o con il petto piatto, o con un vestiario più comodo, o con un aspetto meno curato del solito. Dietro ogni scelta si possono trovare motivi e significati molto diversi. Ogni donna dovrebbe idealmente sentirsi libera di agire nel modo che più le dà sollievo e che più contribuisce a facilitare l’adattamento alla malattia. Un atteggiamento improntato alla delicatezza da parte degli altri anche su queste tematiche rappresenta un tassello che rende il percorso più agevole.
Dott.ssa Lucia Montesi Psicologa Psicoterapeuta Consulenza
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Studi a Piane di Camerata Picena (AN) e
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