ANCONA – E se un’impresa, o una qualsiasi organizzazione umana, funzionasse meglio mettendo al centro le relazioni tra le persone e l’aspirazione alla felicità? È la sfida proposta da Enrico Santarelli, manager anconetano con 20 anni di esperienza, tra i top 100 marketing leader di Forbes, che ha da poco dato alla luce il suo primo (e probabilmente ultimo a suo dire) libro dal titolo Trasformiamoci. Appunti di un ipocondriaco gentile alla ricerca della felicità, una riflessione acuta e ironica sul post pandemia e su nuovi modelli di leadership.
A metà tra diario personale e saggio, Trasformiamoci prende le mosse dai grandi cambiamenti del nostro tempo, a cominciare dalla rivoluzione digitale e dallo shock della pandemia, per arrivare alla costruzione di un approccio diverso, che possa aiutarci a relazionarci con tutti gli eventi, per quanto questi possano essere nuovi e inattesi.
Un approccio “g.e.n.t.i.l.e.”, dove l’aggettivo diventa acronimo delle parole-guida per un leader nuovo, che abbandoni iperattivismo e individualismo per scegliere di agire insieme agli altri con umiltà.
«Ormai certi atteggiamenti sono quasi caricaturali – ha detto Santarelli – quelli del “tardi in ufficio a prescindere”, quelli del “io, io, io” invece del “noi”. Il fenomeno della fuga dal lavoro a cui abbiamo assistito durante la pandemia dimostra che le persone vogliono portare il carpe diem nella quotidianità. E allora: trasformiamoci! Proviamo a dare priorità ad atteggiamenti semplici ma potenti come la gentilezza. Oggi la vera sfida per un leader è spostarsi da una dimensione puramente gestionale ad una più culturale e comunicativa».
Ci racconterebbe la genesi di questa sua ultima fatica letteraria?
«È un libro che è nato con l’onda lunga della pandemia: c’è chi durante il lockdown ha imparato a panificare o fare la pizza. Io ho approfittato dell’occasione per rimettere in ordine le idee che avevo accumulato nel corso degli ultimi anni traducendole in Trasformiamoci. Il libro non nasce con nessuna velleità se non quella di voler restituire dopo venti anni di carriera alcune delle chiavi di lettura che penso di aver imparato durante quei passaggi che hanno caratterizzato il mio viaggio professionale».
Ad inizio pandemia uno degli slogan che andavano per la maggiore erano “ne usciremo migliori”: è andata veramente così? Cosa ha insegnato a lei questa pandemia?
«A mio avviso la pandemia è stato un grande acceleratore di un trend già in atto: il digitale, i temi della sostenibilità ma anche e soprattutto lo smartworking hanno accelerato cambiamenti sociali riguardanti le persone e il mio libro Trasformiamoci parla appunto di cambiamenti riguardanti le persone: la pandemia ha accelerato ad esempio la riscoperta dell’importanza del tempo e della ricerca della felicità. Dopo l’esperienza pandemica le persone sono molto meno disposte a scendere a patti quando si parla del loro tempo o della loro ricerca della felicità. Di questo ce ne accorgiamo in tanti aspetti: la gente di fatto è molto meno disposta a sacrificare il proprio tempo in cose che non contribuiscono alla costruzione della loro felicità».
Quale è il cambiamento che auspica nel suo libro Trasformiamoci?
«Il libro parte da un concetto che era molto in voga all’inizio della pandemia, quello di una “nuova normalità”. C’era una disperata ricerca di voler cercare di tratteggiare questa nuova normalità che ci avrebbe lasciato in dote il Covid. In realtà ci siamo accorti che la “nuova normalità” di fatto costituiva nel passare, attraversare nuove emergenze: mesi fa i riflettori erano sulla guerra, oggi sull’inflazione e poi chissà che altro. Tutto il libro si posa su di un assunto fortissimo: l’uomo, da un punto di vista quasi biologico, è programmato per trasformarsi ma dobbiamo essere messi nelle condizioni ottimali per farlo in modo da vivere con naturalezza le trasformazioni che sperimenteremo nei prossimi anni. Da qui il libro vuole essere un invito a rimettere in discussione i modelli che hanno caratterizzato le organizzazioni negli ultimi anni o i modelli di leadership oramai un po’ anacronisti rispetto all’età che stiamo vivendo. La mia visione propone di basarsi un po’ meno sui sistemi e un po’ di più sulle relazioni e sulla scoperta della componente umana».
Ci spieghi in sintesi il suo approccio ‘gentile’.
«C’è un concetto di fondo che è molto semplice: quello di voler passare dalle sovrastrutture che hanno fortissimamente caratterizzato tantissimi approcci manageriali in questi anni ad un approccio più umano, basato sulla ricerca delle relazioni. Ciò che auspico e che provo a praticare ogni giorno si basa su ingredienti vecchi come il mondo: la gratitudine, la narrazione, la riscoperta del valore del tempo, dei legami; a mio modo di vedere la leadership gentile è un contenitore, un modo di vedere in cui uno può declinare varie chiavi di lettura in base all’interpretazione che ognuno di noi gli da ed in base al contesto dove si muove ed opera. La mia raccomandazione è quella di uscire da schemi e preconcetti precostituiti, le famose sovrastrutture a cui facevo riferimento prima».
Quale è la sua personale ricetta della felicità?
«Io non ho una ricetta anche perché se l’avessi sarei la persona più fortunata del mondo: io mi scontro come tutti quotidianamente con questa ricerca…tendenzialmente mi accorgo sempre dopo di aver vissuto un momento di felicità ma l’idea di fare meglio con me stesso e con gli altri contribuisce a costruire la mia felicità».