GROTTAMMARE (AP) – Sarà pure che “la calunnia è un venticello” come canta Don Basilio nella celeberrima aria de Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini, sta di fatto che Andrea Concetti – che quel personaggio l’ha interpretato più e più volte nei palcoscenici internazionali – è il cantante di cui tutti, dietro le spalle, dicono solo le cose migliori. Non solo è uno dei più apprezzati bassi italiani nel mondo, un grande attore e un raffinato interprete, ma è anche l’artista con cui tanti vorrebbero lavorare. Scorrete i forum operistici dedicati agli addetti ai lavori per credere. «Ci ho cantato insieme nei miei gironi di corista. Ottimo cantante e simpatica persona», e ancora: «Un bravissimo cantante, una bella persona, un caro amico. Compagno di tante avventure mozartiane», «Ti ci troverai non bene, ma benissimo», si legge in risposta ad un artista – suo futuro collega – che chiede notizie di lui in chat.
Marchigiano solidamente ancorato alla sua Grottammare, la città dove è nato e dove vive, Andrea Concetti celebra in questi giorni trent’anni di carriera e di grandi successi. Due gli appuntamenti per festeggiare insieme al pubblico che lo segue con affetto, il primo ieri 24 agosto al Teatro delle Energie di Grottammare per il Festival Liszt con il concerto “30 anni di musica e teatro”, ed il secondo venerdì 26 agosto ore 21,15 presso l’Accademia Malibran di Altidona, in Sala Colonna, con il concerto “La calunnia è un venticello…”. Per l’occasione, affronterà un programma che spazia dalla musica da camera alle arie d’opera, fino alle canzoni napoletane. Ad accompagnarlo al piano sarà Davide Martelli, mentre con il giornalista Paolo Marconi ripercorrerà le tappe del suo percorso artistico. Il nome del concerto si ispira alla cavatina di Don Basilio, tratta da Il Barbiere di Siviglia, ruolo che Concetti ha interpretato pochi giorni fa allo Sferisterio di Macerata, sullo stesso palcoscenico in cui ha debuttato nel 1992, con Signor Bruschino e ne La Scala di Seta di Rossini, iniziando così la sua straordinaria carriera di cantante lirico.
Andrea Concetti si è diplomato in canto al Conservatorio Rossini di Pesaro e si è perfezionato in seguito con Sesto Bruscantini e Mietta Sighele. Dopo aver vinto il 46° Concorso Internazionale “Adriano Belli” di Spoleto, ha debuttato al Festival dei Due Mondi nel 1992, e nello stesso anno a Macerata. Nel 1997 partecipa all’inaugurazione della stagione della Scala di Milano nell’Armida di Christoph Willibald Gluck diretta da Riccardo Muti; nel teatro milanese, tempio della lirica, è ritornato più volte, tra cui per la prima assoluta dell’opera di Fabio Vacchi Teneke, diretta da Roberto Abbado con la regia di Ermanno Olmi (2007), e per interpretare Seneca ne L’Incoronazione di Poppea (2015). Nel 2000 interpreta il ruolo di Don Alfonso nel Così fan tutte di Mozart a Ferrara. La direzione è di Mario Martone, ma a volere fortemente l’artista marchigiano sul palco è Claudio Abbado. Da Ferrara Concetti spicca il volo e calca alcuni dei più importanti palcoscenici della lirica mondiale, fra i quali Festival di Salisburgo (Simon Boccanegra e Falstaff con la direzione di Claudio Abbado), Bayerische Staatsoper di Monaco, Staatsoper di Berlino, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Maggio Musicale Fiorentino, Opéra National de Paris, Théâtre des Champs-Elysées di Parigi, Konzerthaus di Vienna, La Monnaie di Bruxelles, Teatro São Carlos di Lisbona, Teatro Municipal di Santiago del Cile, Teatro dell’Opera di Colonia, Teatro San Carlo di Napoli, Teatro Carlo Felice di Genova. Tante le interpretazioni nelle Marche, tra tutte ricordiamo il Così fan tutte (Don Alfonso) e Don Giovanni (Leporello) con la regia di Pier Luigi Pizzi al Teatro delle Muse e allo Sferisterio di Macerata, ancora allo Sferisterio quale memorabile Papageno nel Flauto magico (2006), in Bohème (2012) e in Sogno di una notte di mezza estate (2013) ancora nel ruolo di Leporello al Teatro Pergolesi di Jesi con la regia di Graham Vick, e le presenze al Rossini Opera Festival nel 2003 in Adelina / Generali (Varner), nel 2007 ne Il Turco in Italia (Geronio), nel 2010 in Sigismondo (Ulderico / Zenovito).
A scriverlo tutto, l’elenco delle produzioni liriche cui ha preso parte Concetti è davvero lungo. E allora chiedo direttamente al cantante di tracciare un piccolo bilancio di questi incredibili 30 anni.
«È un bilancio che supera di molto l’attivo. Ho raccolto molto più di quanto mi fossi aspettato all’inizio. Quando venni ammesso al Conservatorio, negli anni ’80, mi ricordo che dissi a mia madre “mamma ti rendi conto… con questa musica potrò insegnare musica alle scuole medie” … Questo, all’epoca, mi sembrava già un traguardo grandissimo, poi il percorso di studio mi ha dato molto molto più di quello che mi sarei aspettato. 30 anni di lavoro in palcoscenico in teatri importanti di tutto il mondo, con artisti e musicisti di grandissimo livello, a partire da Claudio Abbado, mi sembra che siano una vincita all’Enalotto! È un bilancio magnifico per me»
Cosa è cambiato dagli inizi nel suo approccio al palcoscenico?
«Adesso vivo tutto con più serenità, ho raggiunto uno stato di equilibrio che mai mi sarei aspettato. Non ho ansie».
Il sogno nel cassetto invece quale è?
«In realtà ne ho realizzati talmente tanti, che non me viene in mente uno in particolare. Forse quello di poter continuare a lavorare ancora con questo stato di serenità. E poi… io amo molto lo Sferisterio, è il mio teatro di casa, dove sono cresciuto come spettatore, quindi direi poter tornare a cantare a Macerata ancora qualche volta».
Quale è stata fino ad oggi la più grande ‘sfida’ della sua carriera artistica?
«Mi viene in mente l’Incoronazione di Poppea di Monteverdi che ho cantato nel ruolo di Seneca prima all’Opéra national de Paris e poi alla Scala di Milano, nella produzione di Bob Wilson con la direzione di Rinaldo Alessandrini. Io venivo da un repertorio che era prevalentemente mozartiano e rossiniano, questa è stata l’opera che mi ha traghettato verso il repertorio del basso serio. Fu una gran bella sfida».
Quale il ruolo che interpreterebbe for ever?
«Leporello del Don Giovanni di Mozart, che è forse il ruolo che ho più cantato. Ma dipende. Quando sono a mio agio con la visione registica questo personaggio mi dà tanta tanta gioia, come è stato con Pier Luigi Pizzi a Macerata, e con Mario Martone per l’allestimento al Teatro San Carlo. Mi piace molto anche cantare Papageno nel Flauto magico di Mozart, ruolo che mi ha dato tante belle soddisfazioni come a Macerata sempre con la regia di Pizzi, e a Edimburgo con Claudio Abbado; è un personaggio che scatena la fantasia, ti dà la possibilità di usare una tavolozza di colori e di sentimenti che mi diverte e mi stimola molto come artista».
Quando affronta una nuova produzione, come approccia il personaggio? Mi dicono che sia un uomo di buone letture… parte prima dalla storia e dalla letteratura che ha ispirato l’opera, o dalla musica?
«Se studio Filippo II del Don Carlo di Verdi già so chi è il personaggio, quindi non vado a fare le ricerche in biblioteca per tirar fuori le cose “rare”. Prima studio la musica, studio le note e le imparo a memoria, poi mi accade qualcosa… È come se iniziassi a sentire un imperativo dentro di me, qualcosa che mi dice “questa frase va detta in un certo modo, va cantata così..” È un po’ come Dante diceva del Dolce Stil Novo, “I’mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’è ditta dentro vo significando”. Ecco… a un certo punto, dopo che ho imparato la parte a memoria e magari sto cantando, la partitura si fonde con la mia sensibilità e si trasforma in musica. Non so, non è facile da spiegare…, ».
Cosa accade con il direttore d’orchestra, a questo punto? Non sempre le visioni musicali corrispondono…
«Molte indicazioni sono già nei segni d’espressione che ha scritto il compositore. Poi con il direttore ci si confronta, può dire ad esempio di fare una frase un po’ più veloce, di mettere un accento diverso, si danno insomma delle pennellate di rifinitura. Ci può essere sempre il direttore che ti vuole imporre una rigida interpretazione, frutto a volte di insicurezze, ma per fortuna capita raramente. Claudio Abbado, al contrario, era molto molto libero, ti metteva sempre a suo agio, lui sentiva quello che veniva dalla tua sensibilità e lo lavorava, era meraviglioso lavorare con lui».
Quale è la produzione operistica che le è rimasta nel cuore? Un allestimento magico della sua carriera?
«Rispondo senza indugio. Il primo allestimento del Don Giovanni che ho cantato al Teatro San Carlo di Napoli nella stagione 2002/2003 perché è stato il primo incontro con una città che mi ha rapito completamente, cambiandomi la vita e il modo di vedere. Tra tutte le città del mondo che ho amato molto, Napoli è quella che mi innamora e mi conquista ogni volta, è come una stregoneria e sono felice. E questo successe durante l’allestimento di Mario Martone, ci furono un lungo periodo di prove, circa 40 giorni, ed una compagnia straordinaria. Insomma, fu un periodo magico per me… se tornassi indietro nel tempo è questa di sicuro l’esperienza che vorrei ripetere».
Come è nato il suo amore per la musica e per la lirica in particolare? Mi hanno detto che da piccolino cantava sopra il tavolo di casa, eppure i suoi genitori non erano musicisti.
«I miei avevano una pizzeria ed i miei nonni erano contadini, quindi tutti lontanissimi dalla musica. Però mi ricordo che la mamma cantava sempre in casa. Sono nato intonato, ero attratto dalla musica ed in particolare dalla voce tanto che la prima volta che sentii un coro polifonico, sotto le finestre, qui a Grottammare, io rimasi incantato. Entrai in quella corale, la “Sisto V”, e il maestro Don Piergiorgio Vitali mi consigliò di iscrivermi al conservatorio».
A proposito di maestri… Lei stesso, da quattro anni, è docente in Conservatorio. Quale è l’insegnamento dei suoi maestri che le è più caro, più utile, e che cerca di trasmettere agli allievi?
«Di studiare e non smettere mai di cercare, come un’ossessione. Come un atleta è sempre là a cercare il piccolo muscolo, così dobbiamo fare noi cantanti. Questo è l’insegnamento che mi sento di dover dare, perché non sempre la nozione viene recepita in un determinato momento del nostro percorso. Tuttora, mentre studio un ruolo, mi viene in mente una annotazione dei miei maestri, e allora mi dico… ecco, questo è proprio quello che mi era stato chiesto 20 anni fa».
Il talento, dunque, non basta.
«Assolutamente no. Il talento può durare pochi anni se non è sorretto dalla tecnica».
E la fortuna? Quanto conta nella carriera di un cantante?
«Conta, eccome! È la fortuna che fa incontrare le occasioni. Mi ricordo che l’incontro con Claudio Abbado è avvenuto perché ero la giovane cover di Ruggero Raimondi e lo sostituivo all’occorrenza nelle prove del Falstaff di Verdi a Ferrara. Capitò che Raimondi in una delle ultime prove si ammalò e ne ho dovuto prendere il posto, Abbado mi ha sentito cantare e mi ha scritturato per produzioni future. Fu un vero colpo di fortuna, ma per fare bella figura dovevo comunque essere pronto e preparato. Anche per il mio debutto, nel 1992, ho avuto un incontro fortunato: avevo vinto in primavera il concorso Concorso “Adriano Belli” per giovani cantanti lirici di Spoleto, il pianista accompagnatore era l’assistente di Gustav Kuhn che era il direttore musicale dello Sferisterio, così oltre che a Spoleto sono stato scritturato a Macerata ed ho avuto l’opportunità di debuttare in due palcoscenici importanti».
Per lavoro è un giramondo, ma torna sempre a Grottammare. Ci racconta il suo rapporto speciale con la provincia?
«Non ho mai sentito l’esigenza di andarmene, forse perché il lavoro mi ha permesso di vivere molto tempo in molte città. Se penso che la prima volta che sono stato a Tokyo ci sono vissuto 45 giorni, e poi ci sono tornato altre due volte… a Parigi la prima volta ho lavorato per due mesi… Questo lavoro è privilegiato, ti permette di fare esperienze nelle città in Italia e all’estero che nessun altro lavoro si può permettere. Poi quando torno ho la mia casa, i miei affetti, sto bene qui».
Chiudiamo con un messaggio ai giovani. Perché è bella l’opera lirica, perché andare a teatro?
«È un viaggio emotivo, ed è bello emozionarsi con sollecitazioni diverse di quelle che può dare un film o la visione di una bella mostra. La musica attraversa l’anima, ci rende anche più civili. Attraversare un certo tipo di bellezza ci fa vivere meglio».