SENIGALLIA – «Il riconoscimento di “maestro della fotografia italiana” 2021 è stato completamente inaspettato, nonostante già da tempo collaborassi con la Fiaf (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche). Quando ho letto la loro comunicazione ho provato una fortissima emozione». È il commento di Lorenzo Cicconi Massi, fotografo di Senigallia, sul conferimento dell’ambito riconoscimento che la Federazione italiana associazioni fotografiche ha negli anni consegnato a grandissimi nomi della fotografia, tra cui anche Mario Giacomelli e Ferruccio Ferroni.
Nella lettera del presidente Fiaf Roberto Rossi si legge che è stata assegnata per i meriti fotografici e per la “lunga e straordinaria attività d’autore”…
«Beh sì, questa onorificenza è una specie di premio alla carriera. Il mio percorso però è relativamente giovane: sono da appena 21 anni nel mondo professionistico, anche se questa etichetta è molto limitante. Nemmeno Giacomelli era un professionista della fotografia».
Com’è iniziata questa collaborazione?
«Qualche anno fa la Fiaf mi chiese una fotografia da esporre a Bibbiena, in quel museo a cielo aperto assieme alle stampe degli scatti di grandi fotografi italiani. Una mostra di alto livello che ormai fa parte del tessuto urbano. Tutto partì da lì: poi ci furono altre collaborazioni e adesso è arrivato questo riconoscimento che mi ha tenuto letteralmente incollato alla sedia».
Da dove nasce questo riconoscimento? Guardando indietro, quale progetto ha dato slancio a questa carriera che oggi apprezzano sia in Italia che all’estero?
«Credo che negli ultimi dieci anni siano due i lavori più importanti. In primo piano c’è sicuramente “Altagamma” (2012), una serie di lavori con importantissime aziende che avevano a disposizione diversi fotografi italiani, tra cui anche alcuni dell’agenzia Magnum. In quell’occasione, il mio stile che puntava a dare un taglio completamente personale alla fotografia di corporate venne molto apprezzato. Fui scelto da ben dodici realtà imprenditoriali e questo mi mise sotto riflettori importanti. Poi arrivò la serie di fotografie “Le donne volanti” (2011-2016). Un titolo evocativo per un progetto rimasto per tanti anni nel cassetto: colpì subito tante personalità, tra cui anche l’allora presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini, che volle una mostra a Montecitorio».
In quali progetti sei attualmente impegnato?
«Tra le mani ho diversi lavori: per Marsilio è in uscita a breve un libro sul mondo del vino e su una realtà vitivinicola di Valdobbiadene, con mie fotografie in bianco e nero; sempre a proposito di libri ho un sogno nel cassetto: quello di realizzarne uno su Senigallia. Non un libro di cartoline ma un omaggio alla città con la mia visione di questo territorio in cui sono nato e cresciuto. Ne avevo accennato alla precedente amministrazione e ne ho parlato con l’attuale sindaco Olivetti: spero che questo progetto possa prendere vita. Rimanendo nel locale, sto curando un filmato audiovisivo per conto dell’associazione Confluenze sul fiume Misa, un ambiente per me quasi sconosciuto».
Com’è possibile che il fiume senigalliese sia per te uno sconosciuto?
«L’ho sempre visto quando è in piena che minaccia di esondare o quando è completamente asciutto che permette di intravedere i vecchi argini. Non so perché, forse avevo dei preconcetti ma pur girando tanto per le campagne, non ho mai “dialogato” con il fiume. Io amo i grandi spazi aperti e il fiume, con i suoi argini, mi ha sempre dato l’idea di un qualcosa che è chiuso, di un ambiente limitato. In realtà, adesso che lo sto scoprendo, vedo che c’è davvero tanto da conoscere».
Forse è questo uno dei pregi dell’essere fotografo…
«Sicuramente questo lavoro mi dà un’opportunità straordinaria, quella di conoscere a fondo e smentire perentoriamente me stesso e le mie idee precostituite. C’è tanta bellezza in giro, basta saperla guardare. Anche in una catena di montaggio: c’è la capacità umana, la potenza, la tecnica. Questo grande strumento di conoscenza che è la fotografia ti permette di spaziare in tutti i campi. Qualche volta ci arrivi da solo, altre invece sei spinto, magari in maniera anche casuale, da un lavoro commissionato».
E adesso? Che direzione sta prendendo questa carriera?
«Dove sto andando? È difficile dirlo. Mi interesso di tante cose, ma spesso resetto tutto. La pagina bianca spaventa non solo gli scrittori ma anche i fotografi. Poi però bisogna avere anche un po’ di sfrontatezza, audacia o anche incoscienza per fare il salto e iniziare a riempire quella pagina. A volte devi eliminare il tuo bagaglio di conoscenze per scavare nei ricordi, nelle esperienze e capire davvero a fondo chi sei: non è una chiusura in sé, anzi, semmai è una nuova apertura al mondo. Probabilmente è un percorso che non finirà mai ma credo che solo così si possa scoprire la propria visione e comprendere a pieno cosa aggiungere in un momento in cui tutto sembra già scritto, già visto e fotografato».
Tornando al locale, come giudichi il contesto fotografico attuale?
«Ci sono tante iniziative che avevano preso avvio prima della pandemia o che con difficoltà vanno avanti, come anche le lezioni che sto tenendo ai ragazzi del liceo Perticari di Senigallia. A loro vorrei far capire che la macchina è solo uno strumento, un mezzo che devi conoscere per poter sviluppare un proprio linguaggio, e che la fotografia nasce altrove. A parte i giovani con il loro entusiasmo, però, vedo che la pandemia ha rallentato davvero tutto e ci ha allontanati. Complice anche la scomparsa di Carlo Emanuele Bugatti, storico direttore del Musinf, mi sembra che si è persa non solo quella sapiente regia, ma anche l’entusiasmo che lui aveva portato in città e con cui aveva contagiato tutti, dando il là perché Senigallia divenisse la città della fotografia. Ora mi auguro che questo enorme patrimonio non vada disperso».