Sul palcoscenico del Teatro La Nuova Fenice l’Accademia d’Arte Lirica di Osimo ha messo in scena la Napoli canora dell’Ottocento. Mese Mariano, opera in un atto di Umberto Giordano, su libretto su testi di Salvatore Di Giacomo, era infatti preceduta da una scelta di canzoni intonate sui versi del grande poeta napoletano – da compositori come Tosti, Costa, Buongiovanni, Di Capua, De Chiara, Falvo – i cui titoli sono conosciuti da tutti, e in ogni parte del mondo: Marechiare, Catarì, Spingule frangese, Carmela.
Il piccolo capolavoro di Giordano porta la data 1910, ma continua a coinvolgere e commuovere anche gli spettatori del secondo millennio: merito della musica, tra le più ispirate dell’autore di Andrea Chénier, e del libretto, che il Di Giacomo trasse, come il dramma in dialetto napoletano ‘O Mese Mariano, dalla sua novella Senza vederlo.
Ambientata tra le mura di un orfanotrofio, la vicenda narra di una madre, Carmela, che torna a riprendere dopo diversi mesi il bambino che era stata costretta ad abbandonare. Ma la Madre superiora, che viene a sapere come il bambino sia morto durante la notte precedente, non ha il coraggio di comunicarlo alla madre: le dice invece che è nel coro per i canti del Mese mariano. Quando il corteo dei bimbi passa sul fondo del cortile, Carmela cerca con lo sguardo il suo figlioletto e si illude di averlo riconosciuto. Prima di allontanarsi, lascia per lui alle monache costernate il dolce che aveva portato, promettendo di tornare.
Matteo Mazzoni firmava l’elegante regia, avvalendosi dei discreti ma significativi interventi video di Wilhelm von Stark. A lui si deve il meccanismo drammaturgico coerente che abbracciava i frammenti di vita napoletana delle canzoni digiacomiane e li fondeva con la vicenda di Mese Mariano. Sul palco una classe di scuola elementare fatta di banchi di legno e una vecchia lavagna creava la suggestione di un mondo passato. L’apparizione di chiostri, giardini, interni monastici e panorami distesi come fondali dipinti creavano un gioco d’interni ed esterni che riducevano il microcosmo monastico ai gesti misurati, quasi rituali, delle suore custodi dell’orfanatrofio, partecipi delle emozioni di Carmela e commosse dalla sua tragedia.
Raffinata la concertazione di Alessandro Benigni, che al pianoforte ha reso ogni dettaglio della complessa partitura di Giordano e guidato con mano sicura i solisti dell’Accademia d’Arte Lirica. Questi ultimi hanno dato prova di grande maturità vocale e scenica, affrontando con proprietà e disinvoltura le difficoltà della lingua napoletana nelle canzoni. Particolarmente gustose le interpretazioni di Maharram Huseinvov di Spingule frangese, cantata con brio e ironia, Cristina Neri – soubrette in Carcioffolà e vibrante in Carmela – Chiara Carbone – elegante in Era de Maggio, Claudia Nicole Calabrese, delicata in Catarì e brillante in Canzona a Chiarastella. Di grande rilievo, all’interno dell’universo femminile che popola Mese Mariano, è stata la commovente Carmela di Mariam Perlashvili, a cui Giordano affida le molte sfaccettature di una maternità sofferta. Con lei si sono distinte Martina Rinaldi, una vivace Suor Pazienza dall’anima popolana, Natsuko Kita, autorevole Madre superiora, Nino Topadze, la Contessa, e tutte le altre suore che formavano l’affiatato Ensemble Vocale dell’Accademia d’Arte Lirico.
Bravissimi i giovanissimi interpreti del Coro di voci Bianche delle classi primarie dell’Istituto “Caio Giulio Cesare”, diretti da Rosa Sorice, tra i quali Irene Ragni, impeccabile interprete della bambina Valentina, cantante e fine dicitrice di un sonetto elogiativo.