“Cu famo stamadina? Ndamece a fan giro a Piazza Noa va ch el tempo è bonu!” Se vi capita d’imbattervi in una conversazione del genere non potete avere dubbi: siete ad Osimo e state ascoltando due veri osimani. Comprendere il loro dialetto può risultare molto facile se si osservano alcune semplici regole. Basta ricordarsi che l’indicativo presente di FA’ (fare) diventa Io fago, di DA’ (dare ) diviene Io dago e di NDA’ (andare) tramuta in Io vago. A ciò si aggiunga che il plurale di dito non sarà mai Dita ma Didi, che alcune parole si differenziano dal vocabolario italiano (CONIGLIO osim=CUNILLO, RATTO osim=PANTEGANA, ROSPO osim=CIAMBOTTO) e il gioco è fatto.
Quello che sembra quasi un gioco intuitivo e divertente nasconde in realtà un lungo processo di formazione che si perde nella notte dei tempi e segue i risvolti della storia nazionale.
Un primo passo verso la definizione dell’identità linguistica osimana avvenne già al tempo dei romani che divisero il territorio regionale in Regiones. Osimo o meglio Auximum fece parte della V regio (Picenum) che terminava sull’Esino, confinante a Nord con la VI (Umbria et ager Gallicus), accentuando in questo modo le possibiltà di mescolanze e “contaminazioni”
Successivamente, con l’ascesa in Italia dei Longobardi, Osimo si trovò nella zona di confine tra la cultura longobarda e quella bizantina, attingendo alcuni tratti distintivi dell’una e dell’altra cultura.
Questa sua particolare collocazione si accentuò con la formazione del volgare che vide la nascita dei dialetti settentrionali (fino a Senigallia) e quelli meridionali suddivisi tra le tre province di Macerata, Ascoli e Ancona. In seguito, intorno al 1300 si ebbe una toscanizzazione delle espressioni regionali e Osimo non si sottrasse a questa tendenza. Del periodo sono anche gli statuti osimani che presentano un latino medievale e locuzioni tipiche, che non trovano riscontro nelle città limitrofe.
Un esempio dei vocaboli osimani del tempo è riscontrabile nella Canzone del Castra citata da Dante nel De vulgari eloquentia e attribuita dal codice vaticano latino 3793 ad un Messer Osmano (signore osimano). In essa si riscontrano termini assimilabili all’odierno osimano rurale come l’aggettivo scuppareccio che trova il suo riscontro negli attuali scurdareccio e magnareccio.
Nel cinquecento vi è la comparsa dei primi testi a stampa osimani prodotti localmente dal Tebaldino (1567) e soprattutto dal De Grandis (1569). Un secolo più tardi si assiste alla nascita delle accademie (ad Osimo quella degli Avvalorati e dei Sorgenti). Attraverso i testi scritti per la scena , il dialetto cerca di conquistare nuovi spazi espressivi e di toglierne al toscano trionfante. E’ il caso delle commedie intitolate Intervenuta dove si riscontrano vocaboli osimani attuali come sbigià (scivolare), capà (scegliere), scudulasse (capovolgersi). Ad essi se ne aggiungono altri riscontrabili nella “Raccolta di voci Romane e Marchiane” pubblicata ad Osimo da Giuseppe Antonio Compagnoni quali nisciuno (nessuno) anguria (cocomero), biroccio (calesse), careggiare (trasportare), foderetta (cuscino) ecc.
L’ottocento ed il novecento portano ad una consolidazione del dialetto osimano, attraverso alcune tipiche “regole grammaticali” come il mantenimento di consonanti doppie, (fradello cciaccà) l’uso dell’articolo lu davanti alla R ed alla S (lu stomigo e lu riso) la trasformazione dell’avverbio “quando” in quanno, che ne evidenziano il carattere transitorio tra il territorio maceratese ed anconetano esaltandone quella tipica inflessione che ognuno può imparare, anche oggi, ricordandosi quelle semplici regolette tipiche dei senza testa.