JESI – Alberto Paolini ha 85 anni. Gli occhi sono azzurri, celesti, velati dalla cataratta che oggi gli impedisce di avere uno sguardo lucido sul mondo che gli sta intorno e di camminare con sicurezza. Solo da questo trapela la sua età. Per il resto no davvero. Quando parla le sue parole sono precise, scelte con cura e arrivano dritte, secche, a chi lo ascolta, in un italiano perfetto. La sua memoria è sicura, non vacilla, entra nei particolari; esita un po’, ma solo per organizzare i pensieri che sono tanti e grandi. Come la sua storia, lunga e forte con i suoi quarant’anni trascorsi dentro l’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà a Roma, dove c’era una “macchina poggiata sul tavolino con le rotelle. Grande come un odierno televisore di medie dimensioni, ed era smaltata di bianco. Diversi cavi per la corrente si dipartivano da essa. Aveva varie manopole e alcune levette e, più in alto, numerosi quadranti illuminati con luci verdi…”.
Così descrive il suo primo incontro con la macchina dell’elettroshock, a pagina 34, Alberto Paolini, allora ventenne, nel suo libro “Avevo solo le mie tasche. Manoscritti dal manicomio” (Sensibili alle foglie, ed., 2016). Centoquarantatré pagine, suddivise in due sezioni: la prima dedicata alla sua autobiografia; la seconda, alle sue poesie e ai racconti. Perchè Paolini sa raccontare, e lo fa bene davvero. A lui che fin da piccolo, bravissimo a scuola, nessuno ha mai chiesto la parola. A cominciare dalla sua famiglia. Dalla mamma Luisa.
Oggi Paolini racconta invece la sua storia ai giovani, a chi sa ascoltare, a chi vuole conoscere. Di recente è stato a Jesi per un incontro con gli studenti, nell’ambito della rassegna Malati di Niente, e nell’occasione è stato qualche giorno ospite della casa alloggio per utenti psichiatrici “Soteria”.
Una casa bianca all’esterno, con grandi finestre sulla campagna, pareti colorate all’interno piene di quadri realizzati da uno degli ospiti. Qui ci si racconta, qui si sta insieme, e c’è chi scrive poesie, chi dipinge, chi va alla ricerca di una sigaretta. E chi ascolta e commenta. Seduto su una sedia, le mani sul tavolo, vicino al cappello di lana blu, Alberto Paolini inizia a raccontare il suo mondo a partire dai suoi primi ricordi perché da lì, spiega, tutto ha avuto inizio e perché da lì sono partiti i suoi “problemi” che lo hanno poi portato a varcare il cancello del manicomio romano e del padiglione VI, quello dell’E.s.t.-ElettroShockTerapia.
«Penso di aver avuto una sciagura, una sfortuna, la più brutta che un bambino possa avere, ovvero, avere una mamma cattiva che mi trattava male e mi chiudeva in una stanza quando lei doveva uscire. Non voleva sentire la mia voce. Da questi fatti sono nate le mie difficoltà. Perché avere una mamma affettuosa è la cosa più importante per una bambino». Alberto aveva cinque anni. Era più timido degli altri, non sapeva parlare correttamente come i coetanei. A sette entra in un collegio di suore. Anche qui maltrattamenti e violenze gratuite. Poi inizia la guerra, e arriva anche la fame. E il freddo. Un solo amico, Bruno, con cui gioca a pallone con uno straccio o un sasso, a piedi nudi, in una stanza. E quando parla di lui, accenna ad un sorriso, breve, impercettibile, uno dei pochi in tutta questa lunga storia.
A dodici anni entra nel collegio romano dei preti Salesiani. Qui seppur accolgono giovani di famiglie benestanti, lo accettano: lui che proviene da una povera. Sui banchi di scuola è bravo, anche nell’avviamento alla professione di sarto se la cava bene. Ma è il più piccolo, il più introverso e per questo viene preso in giro ed è vittima di scherzi pesanti, da caporalato. I suoi atteggiamenti vengono letti come “strani”, anche per la famiglia con cui trascorre qualche mese, siamo nel 1945, in una sorta di “affido”, che però non funziona. «Per la donna che mi aveva accolto in casa ero un bambino strano perché non giocavo, non correvo come gli altri, ma me ne stavo in un angolo, silenzioso…». Da qui la prima visita con un neuropsichiatra infantile. Vittima delle angherie dei più grandi, che additano lui per colpe in realtà commesse da altri, non è ben voluto e visto in collegio. Così quasi quindicenne da lì viene mandato nella Clinica Neuro Psichiatrica dell’Università della capitale che poi lo porterà al Santa Maria. «Alla clinica non volevano mandarmi al manicomio…avevano capito che i miei problemi dipendevano da altro…». Eppure Alberto Paolini arriva al Santa Maria della Pietà al Padiglione IV. Uscirà nel 1978.
«Alberto Paolini – spiega un’operatrice della comunità Soteria, Patricia Ciumelli – è l’immagine dell’errore di un certo tipo di psichiatria. È un uomo libero, sì, che con i suoi mezzi combatte contro un’etichetta, un luogo comune, uno stigma. Per me, che lo sconosco dal 2009, e per chi lo conosce è come uno zio, un amico che a tutti noi operatori insegna e insegna tanto».
Oggi Alberto vive in una casa famiglia nella periferia romana insieme ad un’altra persona. «Se ho occasione di sorridere? No…, purtroppo non ho più i miei compagni, quelli del Santa Maria con cui ogni tanto ci capitava di sorridere. Ora ho solo un amico che però non sta tanto bene…». Ma lui continua ad andare in giro, nonostante tutto. Perchè la sua “piccola” storia è grande davvero.