JESI – «È assurdo farci tenere chiuso il weekend, anche adesso che siamo in zona gialla». Si leva la protesta dei centri commerciali anche a Jesi, in particolare alla Fornace, dove insistono 30 attività che danno lavoro a 150 persone. Ogni weekend da novembre i negozianti sono costretti ad abbassare le serrande e tenere chiuso, nonostante le sanificazioni degli ambienti e della merce, l’adeguamento agli standard di sicurezza anti-Covid, i distanziamenti tra i clienti anche tra quelli in attesa lungo la galleria e gli steward assunti (e pagati dallo stesso Consorzio che gestisce il centro commerciale) per misurare la temperatura agli avventori e scaglionare gli ingressi.
«Adeguamenti inutili e soldi spesi a vuoto visto che per noi non è cambiato nulla – dice Matteo Trotta, direttore commerciale di Barchiesi Sport che si fa portavoce della protesta collettiva -: siamo chiusi nel fine settimana da novembre, compreso il periodo natalizio, con un calo medio del fatturato del 45% al mese. I problemi sono molteplici: non solo i costi fissi, che restano invariati, ma anche l’acquisto della merce che viene fatta almeno 6 mesi prima per l’abbigliamento e diventa essa stessa un costo fisso difficilmente ammortizzabile. Poi i ristori. Il Governo Conte aveva promesso un decreto ristori per la chiusura dei centri commerciali, cancellato dal governo Draghi che invece ha inserito un nuovo decreto per le aziende con perdita di fatturato del 30%: un’azienda come la nostra con una perdita come quella avrebbe già chiuso i battenti».
I titolari dei negozi, al di là dei conteggi e del calo di vendite, si sentono vittime di una vera e propria ingiustizia, convinti che le misure adottate siano assolutamente inutili: «Non ci sono assembramenti dentro al centro commerciale – continua Trotta –, noi abbiamo un negozio di 300 metri quadrati e serviamo una media di 60 clienti al giorno. Ogni giorno siamo aperti 11 ore, quindi significa che in media ci sono 5 persone ogni ora che rimangono dentro al negozio per i loro acquisti più o meno dai 10 ai 15 minuti. Su 300 metri quadrati non si viene a creare nessun tipo di assembramento. All’inizio avevamo messo delle persone che monitoravano gli ingressi, richiamavano chi non igienizzava le mani o non teneva correttamente la mascherina: ma visto che comunque ci toccava stare chiusi, abbiamo deciso di fare a meno di questi vigilantes. Ci chiediamo: perché le scuole e gli autobus sono sicuri ma i negozi no? Va anche considerato che non ci sono stati negozi chiusi per quarantena, mentre le classi sì».
I cosiddetti “ristori” promessi da Conte alla maggior parte dei commercianti non sono arrivati, chi ne ha beneficiato ha avuto briciole. Queste chiusure creano anche una concorrenza sleale con attività commerciali analoghe che vendono la stessa merce ma situate in altri punti della città, che il weekend possono regolarmente restare aperte. «Per noi sono ulteriori danni – dice ancora Trotta -, ci stanno facendo lavorare a metà regime e senza alcun motivo. Da qui nasce la nostra protesta».
Sono stati affissi dei cartelli dentro al centro commerciale in cui i titolari delle attività esprimono il loro disagio e ne rendono partecipi i clienti. «Siamo stremati a livello mentale, economico, operativo – conclude Matteo Trotta –; ogni attività che chiude significa dipendenti in cassa integrazione e famiglie in difficoltà. Stiamo cercando di organizzarci anche con gli altri centri commerciali per manifestare il nostro disagio. In teoria dovremmo riaprire il 31 luglio, ma arrivare a quella data è dura. Temiamo che da qui al 31 luglio tanti negozi non riusciranno a rialzare la serranda».
Per far sentire la loro voce, i centri commerciali si stanno organizzando per aderire alla manifestazione nazionale di protesta dell’11 maggio: alle 11,11 i negozi abbasseranno la serranda per 15 minuti.