JESI – “Haters”. Così vengono definiti i “professionisti” dell’odio sul web. Sono coloro che, specialmente su Facebook e piattaforme affini, insultano pesantemente, disprezzano e lanciano accuse diffamatorie nei confronti di persone più o meno importanti. «I social permettono alle persone di restare in contatto tra loro, ma danno anche diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano al bar dopo un bicchiere di vino e ora hanno lo stesso diritto di parola dei Premi Nobel»: questo ha affermato il compianto filosofo Umberto Eco, ricevendo apprezzamenti e critiche per questa sua perentoria presa di posizione (anche dagli “haters”). Un argomento che, a prescindere dalle opinioni personali, necessità probabilmente di un approfondimento a livello mediatico. Anche perché la libertà di espressione, sancita dalla Costituzione e invocata sovente da questi stessi “odiatori” di professione, è tutt’altra cosa. Lo conferma l’avvocato jesino Lorenzo Fiordelmondo.
Avvocato, ci spieghi un po’ questo fenomeno..
«La comunicazione globale ha generato una straordinaria rapidità di circolazione dell’informazione. Lo sviluppo della cosiddetta “società tecnologica”, soprattutto con l’ingresso di internet, ha determinato un aumento del pericolo di compromissione della propria sfera privata. Il complesso dei dati immessi in rete non ha praticamente una delimitazione spazio-temporale e produce, nell’immediatezza della loro condivisione, una conoscenza di dominio globale. Ma la rete non può essere intesa quale zona “franca”. Anche in Internet devono essere rispettati i diritti costituzionalmente garantiti. I commenti rilasciati in rete non sono, di norma, frutto dell’attività di professionisti e non sono soggetti a controlli professionali interni. Pertanto, possono darsi casi di lesione della reputazione altrui ed una susseguente tutela, prestata dall’ordinamento penale ex art 595 c.p., che prevede e punisce il reato di diffamazione».
Cos’è precisamente?
«La diffamazione si ha quando si presentano determinati elementi costitutivi. Innanzitutto un elemento oggettivo del reato, che è dato da tre requisiti: l’assenza dell’offeso, l’offesa dell’altrui reputazione, la comunicazione con più persone. Inoltre, un elemento soggettivo del reato, ovvero l’intenzione di offendere la persona e di ledere il suo sentimento dell’onore. E’ un cosiddetto reato a dolo generico, ovvero che si presenta laddove vi sia anche solo una azione genericamente idonea all’offesa. Non è cioè necessario il cosiddetto “animus diffamandi”: per la sua sussistenza è sufficiente che il colpevole si sia almeno reso conto del discredito che col suo operato ha cagionato. Basta una generica volontà, cosciente e libera, di diffondere notizie e commenti con la consapevolezza della loro attitudine a ledere l’altrui reputazione».
Ciò accade principalmente sui social network..
«Questo perché essi sono oggi gli strumenti di comunicazione per eccellenza, Facebook su tutti. Attraverso Facebook si condividono espressioni, immagini, pensieri ed informazioni che vivono di immediatezza in uno spazio globalizzato. Trattasi di un luogo nel quale possono generarsi, e di fatto si generano in misura sempre maggiore, condotte diffamatorie. Le statistiche dimostrano come la diffamazione su Facebook sia diventata un reato ricorrente. Questioni di vario genere (ad es. Politica, Religione, ecc.) sono campi nei quali l’espressione del proprio pensiero sfora spesso i limiti del rispetto altrui. Anche la pubblicazione di fotografie di amici, in ipotetici atteggiamenti imbarazzanti, o una qualche battuta fuori luogo, possono dare origine al reato. I Social Network non sono mezzi di informazione nel senso classico e scientifico del termine e pertanto, come tali non sono e non possono essere considerati dalla legge. Chi insulta o chi discrimina la personalità, l’aspetto o l’ideologia altrui, non potrà invocare a sua discolpa il diritto di critica e di cronaca, che rappresentano esimenti tipiche dell’attività giornalistica».
Dunque, qualche rischio c’è?
«Certamente. La Corte di Cassazione, con una sentenza che ha avuto ampia eco mediatica (n. 12761/14, I Sez. Penale), ha inquadrato la diffamazione a mezzo social network, come una fattispecie aggravata. La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso una bacheca Facebook ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone. Sia perché ogni profilo racchiude già di per se, come dato di esperienza, un numero rilevante di persone (i cosiddetti “amici”), sia perché le modalità di utilizzo di Facebook integrano la possibilità di una “socializzazione” esposta ad un numero indeterminato di “iscritti” alla piattaforma. Di più. Il reato sarà da ritenersi consumato anche laddove la diffamazione sia solo sufficientemente riferibile al soggetto leso. Non è da ritenersi necessaria l’espressa indicazione del nome dello stesso. Una “linea dura” quindi, nei confronti di chi utilizza i social network per scaricare la propria rabbia nei confronti di soggetti terzi, siano essi personaggi pubblici o semplici “amici”».