JESI – «È stata durissima, ho pensato di non farcela». Emanuele Pascucci non nasconde la paura. Ora è a casa, guarito. Ma il coronavirus lo ha tenuto in ospedale, al Carlo Urbani di Jesi, dal 19 marzo al 6 aprile. Per otto giorni, è stato nel reparto di terapia semi-intensiva. «Avevo il casco per l’ossigeno 24 ore su 24 – racconta l’ex calciatore della Jesina negli anni Ottanta -. Non ci si riesce a muovere, il sonno è complicato, si è isolati da tutto. E poi farmaci, analisi e prelievi continui. Non avevo più sangue nelle vene. A livello fisico è stato molto, molto impegnativo. Ma è l’aspetto mentale quello più difficile da gestire. A parte dolori e fastidi, difficoltà respiratorie e sensazioni claustrofobiche, hai la consapevolezza che stai correndo un rischio altissimo, che combatti da solo contro un nemico mortale. Tante volte ho temuto che la situazione potesse volgere al peggio. Ho persino smesso di cercare notizie sul telefono, quando riuscivo a farlo, per tentare di tenere il morale alto».
Tutto è iniziato venerdì 13 marzo. «Ho iniziato ad avere la febbre – ricorda il manager di una multinazionale, grande amante dello sport -. Giorno dopo giorno, il termometro si alzava. Sono rimasto a casa fino al giovedì successivo, 19 marzo, quando mi sono confrontato con il mio medico Roberto Montanari e l’amico, sempre medico, Giovanni Vignetti. Entrambi mi hanno consigliato di andare in ospedale. Così ho preso la macchina e mi sono recato al Carlo Urbani». Radiografia immediata e ricovero. «I primi quattro giorni li ho trascorsi in reparto con la mascherina per l’ossigeno poi, a seguito della tac al torace, mi hanno ricoverato nel reparto di terapia semi-intensiva. Mi hanno messo il casco. Sono stati otto giorni durissimi».
La situazione, per fortuna, è migliorata e, a inizio aprile, Pascucci è tornato in reparto con la mascherina. Da lunedì 6 aprile è a casa. In quarantena. Il tampone è ancora positivo, ma la carica virale sta diminuendo. Vive in camera e i suoi familiari gli lasciano i pasti davanti alla porta. Se deve spostarsi di stanza, lo fa solo con la mascherina. «Restate a casa – rimarca con forza -. Mantenete alta l’attenzione. Io non so realmente come e quando ho contratto il virus. Forse in Lombardia dove lavoro, o a Jesi. Con i pazienti con cui ho parlato è emerso che sono in tanti a non saperlo. Dunque, restate a casa, questo coronavirus non è una semplice influenza, ma qualcosa di ben più grave».
L’ultimo pensiero, che è il primo per importanza, Pascucci lo rivolge ai suoi salvatori. «Medici, infermieri e operatori sanitari sono gli angeli custodi di questo mondo, gli eroi di questa pandemia – afferma con convinzione -. Lavorano in condizioni di rischio elevatissime senza tirarsi indietro. Hanno la mia infinita riconoscenza. Vorrei ringraziare i dottori Candela, Resedi, Braconi, Balloni, Tardella, Brizzi, Pasqualini e tutto il personale ospedaliero. Inoltre, da jesino, sono orgoglioso di poter contare su una struttura come il Carlo Urbani, un’eccellenza per il Covid-19, un punto di riferimento regionale. Ho parlato con diversi pazienti del pesarese e loro stessi me lo hanno confermato. Abbiamo dei professionisti di altissima qualità e umanità. Grazie a loro, oggi, sono a casa e mi sto riprendendo».