JESI – Inversione di rotta allo sportello antiviolenza di Jesi. Negli ultimi anni c’è stato un aumento di casi segnalati: di più rispetto al passato le donne italiane, indipendentemente dal loro status economico e dalla professione che svolgono.
Ormai è una realtà consolidata lo sportello antiviolenza di Jesi gestito da 12 volontarie che sette giorni su sette, compresi i festivi, rispondono al numero 366 4818 366, dalle 8.30 alle 19, per andare incontro alle richieste di aiuto. Operatrici di ascolto, psicologhe, assistenti sociali e avvocati nel team della Casa delle Donne che offrono assistenza alle donne vittime di violenza. Nato nel 2007, lo sportello ha accolto 250 donne sino ad oggi vittime di 250 uomini violenti. Di questa realtà e della violenza di genere abbiamo parlato con Cristiana Scuppa, Paola Moreschi e Manuela Spinelli della Casa della Donne.
Chi sono le donne che si rivolgono a voi?
«Hanno tra i 25 e i 30 anni, sono sia italiane che straniere anche se ultimamente abbiamo registrato un aumento delle prime. Non appartengono per forza a classi sociali disagiate, spesso lavorano e sarebbero economicamente autonome».
Richieste in aumento perché lo sportello, merito dell’impegno e della professionalità delle volontarie, è diventato una realtà consolidata a Jesi ma anche perché evidentemente gli episodi sono aumentati…
«Sicuramente – spiega Scuppa – c’è una maggiore consapevolezza da parte delle donne di come possono agire per sfuggire alla violenza. Strutturare la realtà dello sportello non è stato facile: collaboriamo con polizia e carabinieri, offriamo assistenza legale e psicologica, cerchiamo di capire alla prima telefonata qual è la situazione che abbiamo davanti. Spesso veniamo chiamate dopo un episodio scatenante e chi chiama è confusa e spaventata, compito dell’operatrice che risponde è convincere questa donna a venire allo sportello. Non è facile: sono donne minacciate dai compagni di rimanere in mezzo alla strada, di rimanere senza casa o senza figli. A loro dobbiamo spiegare la prassi della denuncia, cosa succede in una separazione».
Quindi le richieste di aiuto non si traducono sempre in denunce?
«No, esatto. Prendere consapevolezza è la parte più complessa – aggiunge Moreschi – Sempre dopo un episodio scatenante ci sono le scuse: l’uomo che ha aggredito si dispiace, chiede perdono e la donna generalmente accetta. Questa fase si chiama “luna di miele”. L’esperienza ci ha insegnato che il primo episodio non è mai isolato, è sempre il primo di una serie. Nessuna di noi si innamora di un uomo che al primo appuntamento le dà uno schiaffo, ma l’uomo violento quello era e quello è. Dall’episodio violento non si torna indietro, che quell’uomo cambierà è un’illusione ma è tipico della donna giustificare e autoincolparsi di aver generato la reazione manesca».
Violenza fisica, psicologica, economica. Quali i casi più numerosi?
«Abbiamo avuto casi di violenza fisica molto gravi e molto toccanti, generalmente sempre accompagnati da quella psicologica. Uno dei casi che ci ha più colpito – ricorda Scuppa – è stata una donna che da dieci anni non si specchiava, succube di un uomo che quotidianamente le diceva di essere una nullità, di essere brutta e di non valere nulla. Dopo un lungo e difficile percorso l’abbiamo vista rifiorire, abbiamo visto nascere un’altra donna. Complice la mancanza di lavoro ci capita di accogliere donne costrette a dare lo stipendio al marito o a fare la spesa per tutta la famiglia per una settimana con appena dieci euro che sono quanto concesso dal marito».
Chi è l’uomo violento?
«Non c’è uno stereotipo – dice Moreschi –. Possono avere qualsiasi età, qualsiasi lavoro, nazionalità, religione e classe sociale. Da molti anni facciamo prevenzione nelle scuole sulle differenze di genere. Ad influire è la famiglia, il come e dove una persona vive. Purtroppo spesso facciamo distinzioni senza pensarci: “Gioca con i maschietti come te, non con le femminucce”, “Non piangere come le femmine” sono solo alcuni esempi. Dovremmo insegnare ai bambini che una femmina può giocare a calcio e un maschio a cucinare, sembra facile ma non lo è. Con i ragazzi parliamo anche dei social network e sono davvero impreparati, non si rendono minimamente conto di cosa può accadere a diffondere una foto di un compagno in rete. È un’arma pericolosa, che nemmeno gli adulti sanno gestire».
Le famiglie di donne maltrattate, come reagiscono?
«Spesso le donne che vengono da noi sono state consigliate – aggiunge Spinelli – Le famiglie sono vicine alla vittima, non è più un tabù parlare di violenza. Quando una donna si libera dalla situazione che la opprime diventa un’altra, vederle rinascere ci dà la forza di andare avanti».
Ritenete che gli organi di informazione parlino nel modo corretto della violenza di genere?
«Che se ne parli è sempre un bene – spiega Moreschi – va detto però che si scrive sempre “violenza sulle donne” e non lo trovo corretto, è semplicistico. Sono gli uomini ad essere violenti, si parla solo delle vittime quando invece si dovrebbe porre l’accento sui carnefici: il problema è la violenza maschile che non è un’emergenza, poiché in quanto tale dovrebbe avere un inizio e una fine. La violenza è strutturale nella società, o si lavora su questo o non ci saranno leggi e strutture che tengano».