JESI – Dal Cern di Ginevra al Cnao di Pavia, il ricercatore jesino Enrico Felcini, ex studente dell’IIS Marconi-Pieralisi di Jesi, a soli 30 anni è già nel gotha della ricerca. Una figura spuria la sua, a metà tra Fisica ed Ingegneria, un lavoro complesso di ricerca partito dall’European Organization for Nuclear Research di Ginevra per poi approdare, dopo un dottorato in superconduttività applicata all’École Polytechnique Fédérale de Lausanne, al Centro Nazionale di Adroterapia Oncologica di Pavia, unico in Italia ad utilizzare questo trattamento di nicchia grazie a protoni e ioni di carbonio. Un nucleo specializzato nell’Adroterapia quest’ultimo, quella terapia dedicata ai pazienti oncologici con tumori resistenti alle terapie tradizionali che mira ad un irraggiamento preciso delle cellule tumorali, riducendo al minimo gli effetti collaterali sui tessuti sani.
Felcini ora si occupa di uno speciale macchinario per l’Adroterapia chiamato “Gantry” per ioni carbonio, una testata magnetica che ruota attorno al paziente durante il trattamento, ed in particolare sta studiando come ottimizzare «l’ottica del fascio di particelle della gantry ed i magneti superconduttori che la compongono».
Da sempre studente ambizioso, curioso e intraprendente: cosa consiglierebbe agli studenti di oggi?
«Naturalmente di essere ambiziosi, curiosi e intraprendenti! – dice Felcini -. Scherzi a parte, l’unico vero consiglio, magari anche banale, che mi sento di dare ai ragazzi e alle ragazze è quello di prendere in mano la propria vita. È un lavoraccio, è faticoso e fa paura, ma prendete un bel respiro, raccogliete il coraggio e scegliete il vostro percorso. Nessun altro può farlo per voi».
C’è una chiave per ottenere la realizzazione dei propri obiettivi?
«Non credo esista una chiave universale: ogni serratura è un mondo a sé. Nella mia esperienza, tre sono i fattori fondamentali per continuare a crescere: la passione, la determinazione e le persone. La passione nell’affrontare il proprio percorso. La determinazione di rialzarsi anche dopo cadute e fallimenti. Infine, le persone che ci circondano, che ci aiutano a crescere e ci danno forza in questo lungo percorso».
Che studente era? Secchione o tutt’altro?
«Non mi piace essere etichettato e tanto meno mi piace etichettare le persone. Credo che ognuno abbia il suo ritmo, come nella musica. C’è chi è molto metodico, come nella musica classica, e c’è chi è più bravo ad improvvisare, come nel jazz. C’è invece chi è un “casinaro”, come nel rock. Ognuno può creare un capolavoro, basta solo trovare il ritmo e seguirlo fino in fondo. Forse sono influenzato dai miei gusti musicali, ma credo di essere una via di mezzo tra rock e jazz».
Quando ha iniziato il percorso di studi all’IIS Marconi-Pieralisi, sapeva già che direzione prendere nel mondo del lavoro?
«Direi di no. All’inizio volevo fare l’“informatico”, poi mi sono appassionato del concetto, un po’ astratto, di energia e sono andato a Bologna a studiare Ingegneria Energetica. Un paio d’anni dopo ho scoperto il mondo dei magneti superconduttori che mi ha portato al Cern di Ginevra e proprio lì sono venuto a conoscenza dell’adroterapia. Ho fatto un percorso poco lineare, ma oggi lavoro su magneti superconduttori per adroterapia: sembra che ogni pezzetto del puzzle abbia trovato il suo posto».
A proposito del suo attuale impegno, adesso sta lavorando a un progetto molto importante in ambito oncologico, ce lo può sintetizzare?
«Lavoro alla Fondazione CNAO di Pavia: il Centro Nazionale di Adroterapia Oncologica. L’adroterapia permette di utilizzare le particelle fondamentali che costituiscono l’universo (protoni e ioni) per distruggere le cellule di tumore a livello microscopico. Queste particelle devono essere guidate e confinate attraverso delle speciali linee magnetiche. Tali linee magnetiche possono anche essere costruite per ruotare attorno al paziente; in questo caso si parla di gantry. Ecco, il mio lavoro consiste nel progettare una gantry per ioni carbonio basata su magneti superconduttori. Quella che stiamo studiando al CNAO sarà la prima in Europa di questo tipo e la terza gantry per ioni carbonio al mondo. Parliamo di macchine di diverse centinaia di tonnellate e una decina di metri di altezza. Sarà un progetto tosto, che durerà diversi anni: davvero una bella sfida!».
Una domanda che è un cruccio personale: il progresso scientifico sta raggiungendo livelli incredibili, la medicina stessa è arrivata a traguardi inattesi anche nella cura di malattie mortali come l’Aids. Studiamo la luna, come andare su Marte, la vita artificiale e i virus che poi sfuggono di mano e diventano pandemie. Ma perché di tumore si continua a morire?
«Premetto che non credo di essere la persona adatta per rispondere a questa domanda, che dovrebbe invece essere rivolta a medici oncologi. Provo a dare una mia interpretazione da ingegnere, basata semplicemente sui dati e sulle statistiche, senza parlare nello specifico della malattia. Ma anche in questo caso, temo, sarebbero necessarie decine di pagine per descrivere in maniera adeguata il problema. Tenterò di farlo in poche righe: ad oggi, più del 70% delle persone afflitte da cancro ha più di 50 anni. La popolazione mondiale e la relativa età media sono in continuo aumento. Questi due fattori vanno di pari passo con l’aumento del numero di casi di tumore. Tuttavia, se analizziamo il numero di decessi in rapporto alla popolazione, correggendolo per la variazione di età media, vediamo che dal 1990 la mortalità si è ridotta del 15%».
E perché muoiono sempre più giovani? Dov’è il nodo per cui non si riesce a trovare una cura, un vaccino o un farmaco che freni l’avanzata di questa terribile malattia?
«I decessi di individui tra 0 e 19 anni sono circa un terzo di quelli registrati nei primi anni Settanta. Questo vuol dire che stiamo migliorando! Negli anni abbiamo imparato a conoscere meglio la malattia, a riconoscerla prima e ci siamo ingegnati per trovare delle cure sempre più efficaci. I tumori sono fondamentalmente delle mutazioni delle nostre cellule e, personalmente, non credo che troveremo, almeno nel prossimo futuro, in modo per evitarle. Ci dovremo convivere – conclude il ricercatore jesino – migliorando le diagnosi, le cure, gli effetti collaterali ed il benessere del paziente. Dobbiamo ancora fare molta strada, ma credo davvero che la direzione sia quella giusta».