JESI – Nel mondo di Ninopoli fioriscono colori, pensieri saporiti e sogni leggeri come bolle di sapone. Soffia il vento, lo vediamo un po’ azzurrino, in cielo le nuvole sembrano cotone – bianco – poi c’è il sole, a terra iris “violissimi” e rose rosa e rosse, tra i prati e sugli alberi i verdi vanno dal verdissimo all’acquarello.
Ninopoli è la città invisibile di Nina, alias Francesca Ballarini, illustratrice e qualcos’altro. A Ninopoli fioriscono opere d’arte e manifesti d’artista, etichette di vino e di miele, poesie, una quantità strepitosa di disegni, ed un taccuino parlante che si chiama “ErbaFoglio”, tavole originali e inedite che iniziano tutte con un “voglio che…”. «Come dire, l’erba voglio cresce soltanto nel giardino del re? Allora l’erba foglio cresce nel giardino di Nina», spiega l’autrice.
Francesca Ballarini, per brevità chiamata Nina, è una giovane artista di Jesi, laureata in comunicazione visiva all’ISIA di Urbino con la tesi sulle Favole di Leonardo Da Vinci, progetto selezionato al Premio delle Arti di Roma. Illustratrice e visual designer, disegna per teatri, festival, sistemi museali e aziende, in Italia e all’estero. Il suo tratto grafico è negli occhi di tutti, ogni estate, con le locandine del Macerata Opera Festival, di cui ha curato l’immagine grafica dal 2012 al 2020, e per cui ha realizzato anche i disegni proiettati dell’Aida di Giuseppe Verdi, messa in scena all’Arena Sferisterio di Macerata e al Teatro Comunale di Bologna. Ha curato anche le scenografie di segni per La Creazione del Mondo di Franz Joseph Haydn, esecuzione in forma semiscenica nella Basilica di Santa Maria Maggiore di Bergamo, e i disegni per le scene dello spettacolo The Moon, allestito al Walton Arts Center di Fayetteville, Arkansas, e sul palco di The Center a New York, in occasione dell’anniversario dell’allunaggio. Suoi alcuni tra i manifesti d’artista più belli degli ultimi anni, alcuni dei quali per la Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia, per il Teatro della Pergola e Théâtre de la Ville. Nel suo book d’artista, anche due libri: nel 2020 ha pubblicato il suo primo albo illustrato “Piccolo Sonno” di Alessandro Riccioni, LupoGuido Editore, e a marzo 2021 è uscito “Speranza” di Gianni Rodari, albo da lei illustrato, in occasione del centenario rodariano per Einaudi Ragazzi / Emme Edizioni.
Nina, ti ricordi il momento in cui hai preso i colori in mano e il tuo primo disegno?
«Ricordo un momento particolare alla scuola materna: era un anno in cui giocavamo col tema del circo, una parete dell’aula era ricoperta da due fogli grandissimi con due cerchi giganti che aspettavano di essere riempiti coi disegni dei bambini, e lo chapiteau del tendone sopra, per mostrare il dentro e il fuori del circo. lo ricordo le facce che avevo disegnato coi pennarelli sul mio foglietto bianco: ricordo che ero rimasta in classe per finirlo, mentre tutti i compagni uscivano forse per giocare forse perché era finita l’ora o c’era la merenda, ma io dovevo finire di disegnare le facce dei miei amici amiche sorella genitori maestre non so, ma erano tantissime, e non mi ero alzata dal banco al suono di nessuna campanella, tanto che la maestra era venuta da me dicendo che c’era mamma là fuori, allora mia mamma è entrata in aula, e mentre finivo l’ultimo segnetto blu oltremare loro mi hanno aspettato lì, a guardarmi, sedute sulle seggiolette dell’asilo. Ricordo questo tempo in più rubato all’importanza del disegno. Sacro, felice e inamovibile».
Cosa ti piace, ancora oggi, di più, disegnare, illustrare, colorare?
«Disegnare. Disegnare senza motivo, in libertà, in pieno potere o senza alcun potere su me stessa; poi subentrano i colori, gli inchiostri, che mi piace lasciar andar per conto loro e vedere dove portano, scoprirci le forme nelle macchie, che raccontano a me qualcosa che non so. Ma il disegno sempre e per sempre, perché la mano tocca il foglio quando disegni, coi pennelli invece no, e questa vicinanza, quest’attaccamento con la superficie mi fa sentire in una tana, con le figure i miei pensieri e gli errorini di segno, ad amarli tutti quanti. Disegni e sei altrove, un punto di straniamento felice che è una superficie, in evoluzione di profondità».
Il mondo di Ninopoli, quali creature lo affollano, quali fantasie rincorri, come le nutri e le fai crescere?
«Non so bene come nasca Ninopoli, se è una crescita sincronica con me o in differita. So che è una città invisibile che ha bisogno di spensieratezza: è fatta di quello pure quando i pensieri son così tanti, è come una torre, anzi un faro, che si erge sopra abbastanza per vedere le cose dall’alto (ma pure dal basso, in altro livello dico) per poterle leggere da un’altra prospettiva, trovarne una lucentezza, un richiamo un segnale che mi faccia vivere quell’evento quel momento quell’oggetto in maniera “risolta” con poesia, diciamo. È una lettura ulteriore che permette di ricreare un mondo che diventa altro da me, ma specchio del mio sentire. Ninopoli è fatta della vista mia, che poi diventa indipendente di vita propria, appena il disegno è finito, il pensiero è nato, il fiore cresciuto, il petalo colorato. Divento esterna e li guardo, compiuti, come una nuova casa di grafite e lettere sorta in città. Storta magari, a testa in giù, ma che nessuno ci può dire niente, è giusta così, lei».
Disegno ma non solo. Nel tuo mondo l’illustrazione va a braccetto con la poesia, e ti piace anche molto scrivere, e accompagnare le immagini con i tuoi pensieri. A volte le immagini sono esse stesse lettere, un lettering colorato e poetico, e le due arti si fondono…
«Nascono molto spesso assieme, la forma con la parola, che non è didascalia o fumetto o titolo, è che le lettere diventano disegno loro stesse. Le parole sono importanti, ma le lettere pure dico io. E non sono decorazione, cercano posto dentro la cornice come se parlassero dal disegno o al disegno: chiudono il pensiero, ché il disegno nasce dal pensiero, la figura si crea dalle parole non dette prima di lei, e io quelle parole le devo segnare perché non è giusto starci senza, se sono genitrici del segno. Un’allegra malfatta famigliola. E poi mi diverte tantissimo la presenza della lettera colorata rocambolesca all’interno di un disegno all’apparenza serio, e viceversa: è un’altra voce ancora, che si somma al contrasto che serve per far che un’immagine, completa, finita, sia croccante e salata come una patatina».
A proposito di scrittura, recentemente è uscito il libro con la poesia “Speranza” di Gianni Rodari da te illustrata con un’esplosione di colori, per una nuovissima edizione ai tempi della pandemia. Se Rodari fosse vivo, oggi, cosa vorresti dirgli? Cosa ti piace del suo mondo? Anche lui lavorava, e non poco, sul connubio tra parola e immagine-immaginazione…
«Rodari mi fa ridere, mi fa star felice, distesa su un prato a mangiar ciliegie, o fichi, e immaginare che le ciliegie e i fichi si incontrino e si dicano, che ci fai tu qui fuori stagione? Mi piace il gioco, l’amore per l’errore come segno di partenza, i finali mai compiuti, tutto è aperto, tutto possibile. Rodari ci insegna la libertà, l’errore, la fantasia. E lo fa con generosità, nessuno è mai solo nelle sue storie, avverti questo sguardo di un ottimismo che non è un ottimismo facile o moralistico, ma vero, solido, di braccia e mani che fanno davvero le cose. Si ride con una grazia tanto rara e preziosa».
Parliamo di “OPERA”!!!! E cioè la tua esperienza nell’opera lirica, con lo Sferisterio e il Donizetti Opera Festival, cosa ti colpisce di questo mondo per alcuni un po’… agé, per altri elettrizzante… E come ti piace raccontarlo?
«Ero la prima nel 2012 a esserne lontana, poi con l’assegnazione del bando per la nuova immagine per il Macerata Opera Festival sono entrata e catapultata, fradicia di opera per tutti gli anni a seguire; è nato un mondo di segni che mi han portato a capire, leggere, ascoltare e voler saper come leggere ascoltare e vedere l’opera. Tradurre anche qui col segno, fatto anche di sole lettere pittoriche, il titolo il fulcro nocciolo di ogni storia. Un lettering emotivo pittorico brulicante che non svelasse troppo ma fosse suggestione già dal manifesto.
Bisogna lasciarsi andare un po’ all’ascolto, alla storia, sentir quanto parlano di noi certi libretti è strabiliante, ti entra sottopelle e non ti accorgi. Si tratta di buttar giù un muro dato da un pregiudizio o una fama polverosa, che forse è già d’altri tempi, è passata anch’essa. Ora credo sia vetusta l’idea stessa che l’opera sia vetusta. La chiave è sempre lasciarsi aperti all’ascolto, è bene farlo per tante cose, che son diverse dal nostro solito fare, pensiero, abitudine. Essere anche aperti al fatto che non ci piaccia, o che la comprensione arrivi in un momento più tardo rispetto al previsto, tutto è possibile.
Aida per esempio (per la quale disegnai al tempo le immagini per la scenografia, illustrazioni di segno sintetico e pittorico, che reinterpretavano i geroglifici, proiettate sulle sfondo, come un codice ulteriore sottopelle pur se di grandi dimensioni) [regia di Francesco Micheli, allestimento allo Sferisterio di Macerata nel 2014 e nel 2017 e al Teatro Comunale di Bologna nel 2017, ndr], grazie a un ascolto vero, continuo, mi ha portata a entrare nei moti emotivi di ognuno di quei personaggi a ritrovarci me stessa, i miei amori, i presenti gli assenti, come fosse iscritto in quella simile storia. Gli specchi sono preziosi, ti aiutano a capire, a volte lasciar andare, e l’opera è struggente nel far questo, col canto che ti colpisce al petto».
Hai un maestro, più maestri, punti di riferimento e di ispirazione inossidabili?
«Mia sorella Alessandra, che se usavo i pennarelli con tanto gusto già ai tempi dell’asilo e del circo è grazie a lei, sorella maggiore dalle mani di disegno d’incanto; Marc Chagall, per l’amore suo insito e visibile da cascarci dalla sedia in ogni suo dipinto, una felicità di vivere pure nell’immenso dolore; Massimo Dolcini, mio professore d’ISIA, per lo sguardo sull’immagine, la trasversalità creativa e la croccantezza della figura; John Berger per come scrive dell’atto del “disegnare”, che ogni tanto me ne rileggo un pezzettino, come fosse un libro sacro; i segni di Tullio Pericoli, di Emanuele Luzzati, di Saul Steinberg».
C’è un lavoro, un manifesto, un libro, un disegno, a cui ti senti più di tutto legata?
«Una mia amica dice che mi lego al disegno pure quando scrivo il numerino di un’annata in un’etichetta di vino illustrata, e un po’ è vero. Croce e delizia! Ma quello che si crea va seguito sempre. Lo si vede nascere sì, ma bisognerebbe vederlo anche stare, evolvere, adattarsi all’ambiente che cambia, resistere, esistere. Calvino scriveva : “La luna di pomeriggio nessuno la guarda, ed è quello il momento in cui avrebbe più bisogno del nostro interessamento, dato che la sua esistenza è ancora in forse”. Creatività è parola scivolosa come una saponetta, e progettare può avere tempo breve. Sarebbe bello dire che dovremmo vedere in ogni cosa che viene da noi quella luna di pomeriggio.
Pensando alle immagini che hanno segnato di più la mia “storia”, direi il primo cartellone illustrato per la stagione lirica del 2012 del Macerata Opera Festival, e la potenza data alle lettere disegnate pittoriche che facevano da specchio alla storia, vibravano ma senza troppo spiegare, un modo nuovo di mostrare un cartellone di stagione lirica. Questo è stato possibile grazie anche alla capacità visionaria e aperta di Francesco Micheli, allora direttore artistico del festival, che aveva scardinato quel sentore antico di percepire l’opera solo per alcuni e i giovani sempre lontani.
Ora una vela gigantesca del cartellone, che al tempo aveva finito il suo compito, sta appesa, sana e salva, in cameretta mia di bambina.
Il diario illustrato per Elisabetta Foradori, dei disegni veloci legati al pensiero, alla visione di una donna che ha inciso nella storia attuale di come viene percepito il vino, la sua natura, l’approccio filosofico e di terra assieme. Al tempo ascoltai i suoi racconti per disegnarne il senso in queste “note” colme e rapide, segni veloci come in un taccuino di lavoro. Da lì si è aperta una strada per me nel mondo dell’enologia, lavorando su una comunicazione visiva disegnata, che parla di terra, di luna, di intensità, di api, di colore di stagioni, ormai io perdutamente innamorata.
Infine direi le scene per l’allestimento del 2014 e del 2017 di Aida, coi segni che dialogavano con i cantanti in scena, ne erano la loro ombra riflesso forma interiore moto d’animo. Un’opera gigantesca per me, abituata a disegnar in fogli piccoli nascosti e a bordo pagina, e un’emozione direttamente proporzionale a quei segni proiettati in quel gran libro aperto sul palcoscenico».