JESI – Il dubbio che viene, a vederlo così, è che il cartello sia ancora più “archeologico” delle rovine. Un poco per quel logo “Banca delle Marche”, che dopo tutto quanto è capitato in questi anni fa una certa malinconia. E molto per l’abbandono.
Ancora a terra, lì all’incrocio fra viale Don Minzoni e via Cascamificio, il cartello che segnala che quelli che emergono dall’erba sono i resti dell’antica abazia di San Savino, presente sul posto dall’Alto Medioevo fino a circa il 1400.
Non è la prima volta. Anzi, pare ormai diventata la soluzione definitiva per quel palo reiteratamente divelto e finito al suolo. Tant’è che la tabella che spiega «Resti della chiesa abaziale di San Savino – Sec. XII» è stata adesso fissata in basso, lì dove il sostegno andrebbe piantato a terra, invece che in alto, dove dovrebbe invece restare visibile la spiegazione del luogo per chi si trova a passare di là. Sorte davvero sfortunata quella dell’abazia di San Savino, anche nel ricordo.
Tra la palestra della vicina scuola Federico II e viale don Minzoni a metà anni ’70 del secolo scorso furono riportati alla luce i tracciati di una prima chiesa risalente al IX secolo e di una seconda, più grande, costruita nel XIII secolo dopo l’abbattimento della precedente. Ma una chiesa, destinata a divenire abazia fra le più importanti della Vallesina, c’era già dal VII-VIII secolo.
Intorno al 1400 l’abbandono, nonostante l’importanza pure rivestita nei secoli precedenti. «Tra le abbazie benedettine più importanti della Vallesina – spiegano in “Conoscere Jesi” il compianto Giuseppe Luconi e Paola Cocola- se non per estensione e ricchezza di possedimenti, certo per l’autorità di cui era investito l’abate: non a caso, Papa Onorio III, con bolla del 5 luglio del 1222, si rivolgeva proprio all’abate di San Savino “affinché gli jesini presentassero obbedienza al pontefice”». Timore di predoni e di attacchi, decadenza legata alle fragilità della struttura, non meglio precisate devastazioni: diverse ma tutte incerte e avvolte nel mistero dei tempi le ipotesi e le spiegazioni per i motivi dell’abbandono. Una sorta di “maledizione” che pare continuare pure nella disattenzione attuale.
Ogni tanto ci pensano drappelli di volontari a dare una ripulita al sito. Dove si accumulano inevitabilmente i segni dell’abbandono: la recinzione che rischia di venire giù, qualche bottiglia di plastica, sportelli di vecchio mobilio appoggiati in un angolo, cartacce nell’erba. D’altro canto quel cartello abbattuto e rimontato al contrario non è che ispiri certo grande rispetto e, anzi, la situazione probabilmente è meno peggio di quel che potrebbe essere. Ma un poco d’attenzione in più non sarebbe male per un’area più piena di storia di quel che si potrebbe pensare.
Sepolture romane al Boario erano state ritrovate agli inizi del XX secolo e poi negli anni ’30, negli anni ’70, con la realizzazione della scuola Federico II, erano saltati fuori un’officina ceramica (III-II sec. a.C.), mosaici su pavimenti di un possibile complesso residenziale e altre tombe. Ancora nell’estate 2016, in vista dei lavori di ampliamento del Centro Ambiente, ecco spuntare una piccola necropoli romana con due sepolture di differente epoca e un tratto di strada, pure romana, parallela al Granita.
Insomma lì si vive, lavora, transita e prega pressoché ininterrottamente da secoli e secoli, così come oggi nel raggio di poche centinaia di metri si studia, mangia, compra, commercia. Magari un poco di valorizzazione e un cartello al posto giusto potrebbero aiutare chi passa a rifletterci, anche solo per un attimo, e tutta quella zona a vivere meglio il presente.
Nel piano di interventi finanziabili con l’Art bonus, il Comune di Jesi ha inserito pure un progetto che, per 18mila euro, accomuna manutenzione e valorizzazione di Cisterna romana e resti del Teatro romano (in centro), la villa rustica di Campo Boario, appunto l’abbazia di san Savino e l’abbazia di Santa Maria del Piano.