JESI – Francesca Rimondi torna a Jesi, sabato 27 ottobre in Piazza Franciolini 2 ore 18.30, per presentare il suo libro “Non dire cazzo”, Edizioni Frassinelli, in cui anche la nostra città è protagonista.
Guai a cadere nella tentazione di giudicare il romanzo esclusivamente dal titolo: “Non dire cazzo” è come un diamante allo stato grezzo, contiene molto di più di quel che sembra, come spiega il sottotitolo “L’unico modo per sopravvivere ai figli è occuparsene”. L’autrice, che ora vive a Bologna con i suoi due figli e il papà del primogenito, ha 43 anni e lavora in una casa editrice. Proprio il lavoro l’aveva spinta a Jesi qualche anno fa.
Come è nato questo libro?
«Il libro è nato da una specifica, puntuale e fulminea richiesta dell’editore, che, come succede ormai spessissimo, aveva letto diverse cose mie su Facebook. Questo social è per me un po’ una palestra di scrittura e un po’ un divertimento. Invece di fare un corso di uncinetto o, chessò, di acqua-gym, scrivo quattro cose lì. Con il tempo ho creato delle piccole tracce, dei “filoni” che i miei lettori potevano seguire, come fossero storie».
Jesi è la città dove hai lavorato, esperienza che racconti nel libro. Come ti sei trovata a passare da una grande città ad un centro più piccolo?
«Jesi è diventata volontariamente una delle protagoniste del libro. L’unica cosa che sapevo con certezza, quando ho iniziato a lavorarci, era che Jesi sarebbe dovuta comparire. Nei due anni vissuti qui, ho avuto momenti di grande amore e incanto per la città. Per starci bene, ho capito che avrei dovuto studiarla, percorrerla e capirne gli abitanti. Data la situazione, l’ho potuto fare solo come contrappunto, Jesi era il mio contrappunto alla vita che continuavo a mantenere a Bologna. Non credo di avere mai sentito Jesi ostile o estranea. Ho ricordi davvero meravigliosi, anche legati a momenti che nel libro sono descritti come struggenti. E oggi, che non ci abito più, ogni tanto mi trovo a provare nostalgia per molti angoli, volti, luci e nebbie che Jesi ha saputo regalarmi, con grande generosità».
La quotidianità che racconti è quella di molte famiglie che attraversano momenti piacevoli e altri decisamente difficili. Hai dei rimpianti?
«Nessuno. Forse, se tornassi in dietro, farei il secondo figlio un po’ prima, perché adesso con lui mi sento vecchissima. O forse è solo la reazione al fatto che il primo figlio l’ho fatto a venticinque e tutti mi guardavano come se fossi sua sorella o la sua babysitter. Ero molto poco credibile come mamma. Ora sono credibilissima come nonna. A parte gli scherzi, sì, volevo che l’operazione del libro fosse quella di ricreare un microcosmo familiare particolare, con dinamiche del tutto personali, ma in qualche modo universali. Anzi, meglio: sociali. La famiglia dovrebbe rientrare, anche politicamente dico, un po’ più spesso nei discorsi e nei programmi dei nostri governanti, per tutto quello che riguarda la cura, l’inclusività, la sanità eccetera. Invece alla fine succede che, venendo lasciate su molti aspetti sole, le famiglie poi si alleano tra di loro in maniera “anarchica”, attraverso quegli strumenti infernali che sono le chat dei genitori, oppure ci si isola completamente. Io racconto di una famiglia con dei figli, ma la mia famiglia non ha nulla in più o nulla di migliore rispetto a una famiglia senza figli».
Nel tuo libro le parolacce sono uno sfogo o sono anche un elemento importante nel rapporto con tuo figlio Numero Uno?
«Questo è un punto delicato, perché da quando il libro è uscito (a giugno) il titolo ha un po’ diviso le masse. Come giusto che sia, in fondo. Intanto la cosa che mi preme sottolineare è che non si tratta di “parolacce” ma di una specifica parolaccia. Quella, appunto, del titolo. Che funziona come imprecazione, non come offesa. Poi certo, diventa un modo affettuoso della protagonista di rapportarsi con i suoi figli (soprattutto con Numero Uno), perché è una sorta di leitmotiv che rimane inascoltato e dura il tempo che
trova. Alla base di tutto, comunque, non c’è nessun sottotesto né censorio o moralizzatore né, per carità, provocatorio. Credo proprio nel realismo. Nel realismo della parola “cazzo”. Non conosco neanche una mamma a cui almeno una volta non sia scappato».
Quello che emerge dal romanzo è la forza dei legami familiari: l’amore incondizionato per le persone che hai attorno in grado di far sopportare e superare le difficoltà. Sei d’accordo?
«Sì, decisamente è così, ed è la chiave del libro. Almeno, è quello che ho cercato di far emergere. Non è un libro su come crescere un figlio adolescente, non è un manuale d’uso per mamme inesperte, non mi permetterei mai (né di dare consigli, né di considerare qualcuna più inesperta di me). L’amore, di cui tu parli, che attraversa il libro è indirizzato ai miei figli come a mio padre, a mio marito come a mia madre. Alle città in cui ho vissuto. Ai medici che hanno curato i miei familiari. Alla mia pediatra (che è uno dei miei personaggi preferiti e vorrei tantissimo dedicarle uno spin-off). A chiunque si sia preso cura di me, mentre io mi prendevo cura di loro. Ecco, credo (e spero) di avere scritto una piccola storia che ha a che fare con l’avere cura del tuo prossimo, e con il saper accettare le debolezze, e a volte la noia o il fastidio, che ne possono derivare, senza sentirsi in colpa».