JESI – Paul Gyaba, 42 anni, in città l’abbiamo sicuramente visto in tanti in questi anni. Qualcuno, fuori dai supermercati dove capitava di incontrarlo elemosinare, gli avrà dato una mano e qualche spicciolo. A qualcun altro sarà sicuramente capitato di rispondere male e infastidito. In molti, più o meno da lontano, abbiamo visto dove dormiva, all’aperto su un materasso buttato sotto la tettoia del Campo Boario, fra le comprensibili segnalazioni allarmate di chi la zona la abita e frequenta. Oggi Paul Gyaba è tornato in Africa e alla sua famiglia. In quel Ghana da cui era partito anni fa inseguito da violenze e tensioni che ora, nella zona da cui era scappato, si sono placate: al villaggio di Kankra, che sulle carte principali non si riscontra, e che ha come città più vicina e più grande Techiman, sul fiume Tano nella regione di Bono Est, 80mila abitanti e sede vescovile.
Quella di Paul Gyaba è una storia di rimpatrio volontario a cui hanno collaborato in tanti. Una vicenda passata per la Libia, per lo sbarco in Italia sette anni fa con riconoscimento di uno stato di protezione sussidiaria che da allora ha sempre visto Paul regolare sul territorio nazionale, per l’arrivo quasi subito a Jesi. E poi una integrazione mai scattata, la vita presto in strada, la dipendenza dall’alcool, un tremendo incidente nel gennaio del 2021, con l’olio bollente a ustionargli pesantemente entrambe le gambe. Il sogno dell’Europa è diventato così il sogno di un ritorno in Africa, non meno complicato del primo fra burocrazie e difficoltà economiche.
A riaccompagnare Paul Gyaba a Kankra sono stati, a metà settembre scorso, il direttore della Caritas di Jesi Marco D’Aurizio e i volontari Maria Laura e Gabriele. E sono loro a raccontarne la vicenda e l’attuale finale, insieme a tutti coloro che intorno al ritorno del 42enne in Ghana si sono dati da fare e hanno fatto rete: l’Asp della presidente Gianfranca Schiavoni e del direttore Franco Pesaresi, l’assessore ai servizi sociali del Comune di Jesi Samuele Animali, medici e professionisti del Servizio delle Dipendenze di Jesi, che Paul Gyaba l’hanno seguito come paziente. «Collaborazione» dicono tutti nel ricordare le chiavi del successo in questo percorso. E poi «passione e professionalità». Ma anche e forse soprattutto «creatività, flessibilità, libertà di movimento». Perché senza queste ultime, le normali e dovute regole di comportamento del settore pubblico da sole difficilmente avrebbero riportato Paul Gyaba a casa. «Caritas – dice il direttore D’Aurizio – può muoversi in una maniera tale che agli enti pubblici non sarebbe possibile. Pensiamo solo a cosa sarebbe significato mandare due accompagnatori in Ghana per il viaggio di rientro». Arrivato in Italia, «Paul ha fatto fatica a inserirsi, forse per una sua fragilità o forse semplicemente perché ognuno ha la sua specifica storia. Importante – spiegano i volontari – è stata per lui la barriera linguistica: non è mai riuscito in questi anni superarla e imparare a esprimersi in italiano: specie nella sua lotta per superare la dipendenza da alcool in cui era caduto, l’avrebbe molto aiutato».
«Paul è stato nostro utente per molti anni – spiegano dal Sert – per quanto possibile abbiamo fatto quello che è richiesto al Servizio Sanitario Nazionale: provare ad esserci, a dare risposte, a immaginare e disegnare percorsi per i più vulnerabili, nonostante le difficoltà ed i limiti che a volte possiamo avere. Speriamo che Paul non si offenda se diciamo che per noi è stato un paziente cosiddetto “difficile”: un brutto problema di salute, una scarsa aderenza alle proposte terapeutiche, ma anche uno spirito libero, mai dentro le righe ed una vita ai limiti. Queste cose a volte si scontrano con l’onnipotenza di voler aiutare a tutti i costi una persona, senza considerare però quello che la persona vuole per sé stessa. Con Paul alla fine si è scelto di invertire i classici canoni prestabiliti, invertire i punti di vista e puntare sulla qualità della vita e dargli delle opportunità altrettanto fuori dalle righe: ritrovare i suoi cari, rivedere Casa e provare a ripartire. Abbiamo accompagnato Paul in questo progetto di rientro a casa supportando per quanto di nostra competenza gli operatori coinvolti e ci siamo sentiti partecipi ed orgogliosi nel vedere che questo progetto progressivamente prendeva forma».
Nel gennaio 2021, l’incidente alle gambe. «Ci ha raccontato – spiega Gabriele – che mentre era ospite in casa di una persona l’olio bollente gli è caduto addosso. La mattina dopo, al Boario, l’ho trovato che una delle gambe aveva l’osso praticamente allo scoperto, l’altra mezza ustionata, una pesantissima infezione. Ancora un po’ in quelle condizioni e non ce l’avrebbe fatta». Sono seguiti il ricovero e le cure a Cesena, cure cui tutt’ora si sta sottoponendo. «In Africa, a casa sua, abbiamo portato anche una adeguata scorta dei medicinali che deve assumere. Con la sua famiglia che l’ha riaccolto siamo ancora in contatto, l’idea che hanno quando starà meglio è che andrà dal fratello nella capitale, ad Accra, dove potrà lavorare nel suo negozio» Anche perché Paul Gyaba in questi anni, pure nelle condizioni di emergenza e estrema povertà in cui viveva, alla sua famiglia in Ghana è riuscito comunque a dare una mano: in un paese dove lo stipendio medio di una infermiera si aggira sull’equivalente di 200 euro, spiegano i volontari, ecco che pure poche decine di euro frutto di elemosina spedite dall’Italia diventano un supporto non indifferente.
«Evidenzio che si tratta di un rimpatrio volontario e effettuato in piena condivisione con Paul – dice Pesaresi – non un liberarsi di un problema ma un dargli soluzione. C’è voluto un percorso straordinario, possibile solo con il concorso di tanti, di fronte a un problema complesso. Negli ultimi tre anni, è la terza vicenda di questo tipo, con due rimpatri in Ghana e uno in Gambia». Numeri che appaiono minimi a fronte delle cifre della cronaca degli sbarchi, degli allarmi, degli scontri sul teatro della politica. «Ma alle persone non occorre guardare come a numeri ma, appunto, come a persone – dice Animali – non come a problemi di decoro o sporcizia ma come a persone di cui una comunità deve prendersi cura. E di Paul Gyaba, in sinergia, ci è presi cura come comunità, ciascuno dei soggetti coinvolti ma anche tutta la comunità che ha avuto la pazienza di affrontare e farsi carico della sua situazione, come di situazioni tutte singole, personali, specifiche».
Una comunità che è stata, ricordano i volontari, «anche quella delle cassiere dei supermercati a cui chiedevamo per rintracciarlo se l’avessero visto. Una rete che è poi passata dal contatto e dal confronto con la sua famiglia in Ghana per preparare il rientro, dall’assicurarsi che le condizioni di pericolo di quando era partito da lì anni non fossero più presenti, infine dall’incontro col fratello che ad un primo momento non l’ha riconosciuto e ci ha detto: “La Libia gli ha cambiato la faccia”».
Una piccola grande storia fra milioni e che ora ricomincia da dove era partita.