JESI – Evolversi per innovare. Innovarsi per evolvere. Due concetti perfettamente intercambiabili, e saldamente connessi fra loro, che delineano la mission della Diatech, leader in Italia nel settore della farmacogenetica e farmacogenomica, vale a dire le discipline che studiano la risposta individuale ai farmaci in base al profilo genetico di ogni singolo paziente e si interessano di come le conoscenze sul genoma umano possano essere utilizzate nella scoperta e nello sviluppo di nuovi farmaci.
Nata nel 1996, l’azienda presieduta da Fabio Biondi è una dei più lucenti fiori all’occhiello della zona industriale di Jesi. Oltre 13 milioni di euro di fatturato lo scorso anno, una quarantina di collaboratori, di età media 30-35 anni, e una presenza ormai globale, anche nei Paesi – Germania e Inghilterra – tradizionalmente molto forti in questo settore.
«Chi fa innovazione sa che deve essere sempre più veloce e qualitativamente più performante dei concorrenti – spiega Biondi illustrando la filosofia aziendale -. Anche un colosso innovativo come la Apple verrebbe estromesso dal mercato se restasse per anni a cullarsi sugli allori. Le aziende hi-tech non possono permettersi di arrancare. E comunque, la figura romantica dell’imprenditore che va fischiettando in azienda, prepara gli ordini e attende i fax non esiste più oggi. Quelli che c’erano sono quasi tutti stati spazzati via dalla globalizzazione».
Biondi, come è nata la Diatech?
«Questa azienda è il risultato della voglia di fare diagnostica nel campo della biologia molecolare, con particolare riferimento ad analisi e crescita della tecnologia applicata al Dna e alla diagnosi delle malattie infettive. Un asset che abbiamo poi venduto a una multinazionale tedesca per investire in ricerca e sviluppo della farmacogenetica applicata ai tumori. L’Italia è il nostro primo mercato, ma stiamo crescendo sia in Europa che in Asia. Il nostro obiettivo è raggiungere quota 50% del fatturato dall’estero. Stiamo dunque ipotizzando l’apertura di una filiale in Germania e un laboratorio di ricerca a Cambridge, oltre a programmare un ritorno nel parco scientifico di Pordenone. Vorremmo inoltre certificare i prodotti per i mercati americano e cinese. Al momento, abbiamo la sede centrale a Jesi, un ufficio di rappresentanza a Milano e un laboratorio condiviso a Napoli per gli studi sul diabete. Stiamo infine potenziando il segmento della bioinformatica. Nel comparto hi-tech non c’è tempo per fermarsi».
Azzeccare le decisioni nel minor tempo possibile. Fa questo, oggi, un imprenditore?
«Il nostro mestiere è molto cambiato con l’apertura dei mercati e le nuove potenze emergenti. Un buon imprenditore, ad ogni modo, deve sempre, quotidianamente, chiedersi dove andare, quale strada prendere. Anche perché oggi, più di prima, se si sbaglia una mossa si finisce automaticamente fuori mercato. Le scelte vanno innanzitutto azzeccate e concretizzate velocemente. In Diatech, tanto per dire, abbiamo fatto quattro importanti salti tecnologici in otto anni. Perché evolversi costantemente è una prerogativa di chi, come noi, fa innovazione».
Quanto è difficile fare ricerca in Italia?
«Abbastanza, devo dire. C’è purtroppo ancora troppa distanza fra gli istituti di formazione e il mondo del lavoro. Ci vorrebbe una osmosi totale tra le imprese che innovano e il sistema universitario, fino alla condivisione degli spazi fisici, se necessario. A poco servono gli stage trimestrali e le iniziative “pro-forma”. Questi due mondi dovrebbero essere maggiormente integrati. La forza del Regno Unito nel biotech deriva proprio da questa strettissima sinergia. Ho sempre pensato che la selezione dei migliori, in ogni campo, sia il solo modo per alimentare l’innovazione. Qui in Diatech molti nostri collaboratori hanno effettuato dottorati all’estero ed è sicuramente un valore aggiunto. Anche perché sono pochissimi, e troppo carenti in termini di capitale di rischio, i parchi scientifici in questo Paese. È giunta l’ora, insomma, di decidere da che parte andare».
È questa la chiave per risolvere i problemi di questo Paese?
«Senza dubbio. La grande ripresa ci sarà solo quando questa nazione si darà un indirizzo strategico industriale. In poche parole, cosa vogliamo fare nei prossimi anni? In alcuni settori non possiamo più competere. Un operaio in Turchia costa complessivamente 800 euro, per esemplificare il concetto. Sono quindi convinto che si debba puntare sull’innovazione basata sulla ricerca. E qui torna l’esigenza di fondere tangibilmente il mondo della scuola con quello imprenditoriale. I progetti a breve termine servono solo per vincere le elezioni. Noi abbiamo invece bisogno di piani a lungo termine in cui si investa tutto sull’istruzione. I Paesi che lo stanno facendo sono quelli che vanno meglio. E non parlo solo del Pil, ma anche del benessere, della pace sociale, della speranza nel futuro».
È importante il legame con il territorio per la Diatech?
«Direi che è fondamentale. Siamo in una bella e grande area industriale, in città si vive molto bene e i nostri ricercatori, che si sono trasferiti qui, lo confermano C’è solo un grande problema in questo territorio..».
Quale?
«Aziende come la nostra avrebbero bisogno di un aeroporto efficiente, il contrario di quanto accade ora. Rischiamo di perdere anche il volo Roma-Ancona, stando alle ultime notizie. E poi, essendo convinto che la comunità europea sia un’immensa opportunità per noi e i nostri figli, ritengo imprescindibile un volo giornaliero per Bruxelles. Sono convinto che un aeroporto efficace cambierebbe davvero i destini di questa regione».