ARCEVIA – Una manciata di abitanti in un piccolo centro ricco di particolarità. Sarà lo jesino Francesco Coppari a raccontare Piticchio il prossimo 9 agosto alle 21.30 in piazzetta (davanti al circolo Acli), nell’ambito di AR[t]CEVIA, il festival d’arte internazionale che dal primo sabato di agosto fino ad ottobre attrae artisti da tutto il mondo.
Francesco, di cosa parla il tuo documentario?
«Sono venti minuti in cui cerco di raccontare la vita del paese dal punto di vista sociale con interviste. Alle persone ho chiesto perché vivono a Piticchio o perché hanno scelto di viverci, visto che buona parte della popolazione ha lasciato il centro storico. Rafforzare l’identità di Piticchio, ecco lo scopo del mio lavoro».
Piticchio è uno dei castelli di Arcevia, come è cambiato nel corso del tempo?
«Molti giovani hanno abbandonato frazioni o borghi per avvicinarsi a centri più grandi e avere quindi maggiori comodità. Alcuni borghi sono fantasma, non ci vive più nessuno. Una realtà triste che va incontro alle esigenze della modernità: ecco allora che il centro storico viene abbandonato con inevitabili ripercussioni sulle attività commerciali, ad esempio a Piticchio (una ventina di residenti tra le mura del castello) è rimasto un bar gestito dall’Acli».
Piccoli centri dal gusto un po’ magico…
«Si, che trasudano storie lontane, una purezza perduta, un ritorno alle origini che si scontra con la frenesia della vita quotidiana, con l’insoddisfazione dei tempi moderni».
Cosa ti ha colpito di più di Piticchio?
«E’ stata una scoperta: ho intervistato il tuttofare del paese, ho visitato il museo dei giocattoli che custodisce pezzi unici, esemplari di valore storico provenienti da tutto il mondo, trenini perfettamente funzionanti con pezzi originali».
Francesco Coppari nasce a Jesi nel 1986. La sua passione per la fotografia inizia nel 2006 quando porta avanti progetti basati sul photoreportage e sulla street photography. «Lasciare una testimonianza della nostra società e della sua evoluzione attraverso la fotografia è una scelta non solo artistica, ma è linguaggio istantaneo, non mediato e di sicura efficacia. Essa
è chiara, documentativa e oltre a far rivivere un episodio, viene valorizzato il particolare dell’immagine come frammento della realtà, unico e irripetibile. Nel 2014 – racconta – ho intrapreso un progetto sul disastro nucleare di Černobyl, che ricostruisce quanto accaduto 28 anni dopo, un reportage di 4 giorni di permanenza nella zona di esclusione dell’incidente della centrale nucleare V.I. Lenin. Nel 2015 ritorno in quei luoghi per finire di raccogliere le testimonianze della gente che viveva nella zona dei 30km dalla centrale, e per documentare la commemorazione nella cittadina di Černobyl. Il progetto si è concluso con la pubblicazione del fotolibro Černobyl: inside the zone. Contemporaneamente a tutto questo ho portato avanti e sto portando avanti altri progetti, sia di natura documentativa sia di natura creativa».